La forza di un continente fragile
C’è una certa apprensione in Occidente nell’assistere al lento declino della propria influenza in Africa. Lo si è potuto osservare, ad esempio, dalla grande attenzione che i media europei hanno dedicato al colpo di stato in Niger del 26 luglio. L’arresto del presidente Mohamed Bazoum, a opera dei militari della guardia presidenziale guidata dal generale Abdourahamane Thiani ha messo a nudo molti nervi scoperti. Ad esempio ha mostrato il profondo risentimento nigerino nei confronti della Francia, paese che ha enormi interessi (economici e non) dalle parti di Niamey, e che è stato accompagnato alla porta dai nuovi padroni del Niger. L’ambasciatore francese, espulso dalla nuova giunta miliare, ha passato mesi rintanato all’interno della sede diplomatica nella capitale. A fine settembre Parigi ha deciso di fare i conti con la realtà, richiamandolo in patria e ritirando tutti i circa 1.500 militari d’Oltralpe presenti in Niger.
Un’area rilevante per diversi attori
Quanto accaduto in Sahel è un segnale degli equilibri che cambiano, ma non restituisce il quadro completo delle profonde dinamiche che sta attraversando il continente. Lo scenario è complesso e ha varie sfaccettature. Ad aiutarci a comprenderlo è Aldo Pigoli, professore di Storia dell’Africa contemporanea all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ma anche ad di Baia, start up che si occupa di analisi geoeconomica a supporto delle Pmi. “Il continente africano – spiega – è stato storicamente una realtà marginale del contesto geopolitico e geoeconomico internazionale”. Soprattutto a partire dall’inizio del nuovo secolo, la situazione è completamente cambiata: “dopo un decennio abbondante di disinteresse – osserva Pigoli – a seguito della fine della Guerra Fredda il continente è tornato a essere un’area rilevante per diversi attori. In particolar modo per i paesi emergenti, Cina su tutti, ma anche per altri soggetti asiatici come l’India e più di recente per i paesi della Penisola araba, in particolare Emirati Arabi, Qatar e Arabia Saudita”.
Ruanda, l’emblema di una nuova fase di sviluppo
Dalla fine degli anni ‘80 ai primi 2000 un numero significativo di paesi africani ha vissuto lunghi conflitti armati, ricorda Pigoli citando Repubblica Democratica del Congo, Angola, Mozambico e Sierra Leone. Il professore si sofferma in particolare sul caso del Ruanda, paese uscito devastato dal genocidio del 1994. “Dopo aver perso più di un terzo del Pil e buona parte della popolazione a causa delle violenze etnico-tribali, il Ruanda è diventato il caso emblematico delle potenzialità del continente”. Dagli anni ‘90 cresce costantemente, diventando uno dei paesi con il più alto tasso di aumento del Pil al mondo. “È un paese sui generis perché, per volontà politica interna, ha scelto di non essere dipendente dalle commodities come era in passato, ma di diversificare l’economica puntando sui servizi e sulla digitalizzazione: non a caso – evidenzia Pigoli – in Ruanda, quattro anni fa, è stato sviluppato il primo smartphone interamente prodotto in Africa”.
In geopolitica, se si apre uno spazio ci sarà sempre qualcuno a riempirlo
Tre fattori di fragilità
Come il Ruanda ci sono altri paesi che sono molto cresciuti economicamente. “Il continente africano – osserva il professore – si sta espandendo a livello economico non solo nei settori classici delle commodities, ma anche in altri ambiti, compreso, in alcuni casi, quello manifatturiero”. A fronte di questo lato della medaglia esistono però alcune basi di fragilità presenti in buona parte dei paesi africani, nei quali, nonostante la crescita economica (anche in termini di Pil pro-capite) permangono aree in cui si registra un aumento della povertà e dell’instabilità. In particolare, Pigoli individua tre fattori di criticità: il Covid, la competizione geoeconomica tra Cina e Usa, e la guerra in Ucraina. “Questo complesso di fattori – prosegue Pigoli – ha messo a nudo le fragilità sostanziali di buona parte del continente, anche dei suoi giganti economici: pensiamo ad esempio all’Egitto, una delle tre grandi economie del continente (assieme a Sudafrica e Nigeria) in grave crisi a causa di questa congiuntura. Il continente ha grandissime potenzialità, ma in molti casi le basi sono deboli, e quando arrivano scossoni forti, come quelli che abbiamo conosciuto in questi anni, la capacità di resilienza è scarsa”.
Il peso del debito
Tra gli attori più attivi nel continente non c’è dubbio che la Cina sia quello oggi dominante a livello commerciale. “Sebbene non ancora al pari di quelli europei e statunitensi, gli investimenti cinesi sono cresciuti in modo significativo, anche in termini di aiuti allo sviluppo e cooperazione internazionale”. E qui entra in gioco la cosiddetta trappola del debito, con cui la Cina tiene legati a sé molti Stati africani. “I paesi africani che si legano alla Cina, ad esempio all’interno della Belt and road initiative o per altri investimenti, devono sottostare a norme capestro che li vincolano finanziariamente, anche a livello di progettualità. Gli investimenti cinesi sono prevalentemente in infrastrutture o in commodities (minerarie o energetiche), ma non vanno ad apportare un effettivo beneficio diretto al contesto socioeconomico africano, se non in minima parte”.
Ma la questione del debito è più ampia e profonda. “Negli anni ‘80 e ‘90 – ricorda Pigoli – il debito dei paesi africani è stato al centro di campagne di attivismo affinché fosse abbattuto”. Oggi, proprio per i tre fattori citati in precedenza, l’Africa si trova di fronte a una situazione drammatica: si calcola che dal 2010 al 2021 il debito continentale sia salito del 183%. Secondo Pigoli, il caso del Kenya è uno di quelli più emblematici: il paese è tra i più attivi, dinamici, e diversificati a livello economico, motore dello sviluppo nell’Africa orientale. Eppure ha visto aumentare drammaticamente l’incidenza del debito rispetto alle entrate governative. Nel 2022/2023 si stima che per il pagamento degli interessi Nairobi spenderà più della metà di quanto incamera attraverso la tassazione.
Un altro elemento segnalato da Pigoli sempre più rilevante in Africa riguarda il fatto che gran parte di questo debito (chiaramente parliamo di titoli a basso rating, quindi altamente speculativi) è in mano a soggetti privati e banche d’affari, mentre anni fa veniva prevalentemente acquistato da istituzioni multilaterali.
Un nuovo soft power?
Alla luce dei tanti investimenti diretti fatti dalla Cina nel continente, è lecito chiedersi quanto di questo attivismo si stia trasformando in soft power. “È una questione dibattuta – ammette il professore – e sulla quale si specula molto. Esiste una narrazione secondo cui il Beijing consensus è andato a sostituirsi al Washington consensus”: due modelli diversi, laddove quello cinese non pone ai paesi africani condizioni come il rispetto dei diritti umani o dei meccanismi democratici; si chiede solo business, e l’alleanza in un sistema che tende a essere sostitutivo rispetto a quello occidentale. Questo modello in alcuni casi ha attecchito. “Il soft power – osserva Pigoli – è una capacità di attrarre e cooptare, che unita all’hard power di tipo militare ed economico genera quello che gli americani chiamano lo smart power. È il principio del bastone e la carota. Il problema dei cinesi e dei russi è che la loro carota è sovente indigesta”. La presenza cinese, pur essendo apprezzata in quanto genera un’alternativa rispetto ai vecchi interlocutori coloniali o americani, inizia ad avere un costo sempre più elevato. Pigoli spiega che molti paesi africani, soprattutto nel momento in cui cambiano i governi, tendono a denunciare l’approccio cinese. È il caso del Kenya: “appena entrato in carica, l’attuale presidente William Ruto ha voluto rendere pubblico il contenuto di molti accordi siglati con la Cina dai precedenti governi, compresi i trattati capestro, e adesso sta forzando Pechino a rivedere gli accordi”. I cinesi, anche alla luce della loro crisi interna, stanno approcciandosi in maniera diversa e in alcuni casi stanno rinegoziando i contratti. Del resto, fa notare Pigoli, “se i paesi non hanno i soldi per ripagare i prestiti, per la Cina l’investimento rischia di diventare antieconomico”. Quanto all’influenza della Russia, Pigoli cita i casi della Repubblica Centrafricana e del Mali, dove il potere è in mano a regimi militari per cui “l’aiuto di un partner esterno come la Russia è assolutamente valido perché garantisce, attraverso la presenza della compagnia Wagner o di altri strumenti, quel livello di sicurezza che piace al regime: chiaramente non è sicurezza reale, ma permette di avere una maggior capacità negoziale nei confronti dei vecchi partner. E sulla media-lunga distanza diventa un fattore che non aiuta l’evoluzione di questi paesi”.
L’Europa dorme (e non investe)
Dall’altro lato l’Occidente, Ue in primis, secondo Pigoli “ha dormito” sull’evoluzione del continente africano, sotto vari punti di vista. “In primo luogo ha permesso l’ingresso in maniera forte della Cina e delle regole cinesi. Quindi – fa notare – ora sarà difficile imporre un modello per cui l’aiuto europeo viene concesso a fronte di condizionalità come un certo livello di democrazia, il rispetto dei diritti umani, o una struttura economica di un certo tipo”. Cina e Russia, invece, non hanno la necessità di dover riportare alle proprie opinioni pubbliche interne i rapporti con Stati africani poco democratici o dalla condotta discutibile.
E poi c’è il tema, fondamentale, delle risorse finanziarie. “L’Europa ha bisogno di investire molti soldi per legarsi all’Africa in maniera strategica, così come serve molto denaro anche per non dipendere più dalla Cina per le filiere del valore sulle commodities, e per non dipendere più dalla Russia per l’energia”. Ma oltre al denaro, serve un progetto, un’iniziativa comune europea per creare una grande area di integrazione. “Al momento c’è solo qualche iniziativa a livello bilaterale tra singoli paesi europei e africani sulle questioni energetiche o sui flussi migratori, invece servirebbe un piano sistemico”, sottolinea Pigoli.
Questa assenza di visione di insieme si riflette nell’arretramento del protagonismo dei paesi europei in Africa, come abbiamo sperimentato noi italiani, di fatto estromessi dalla Libia a favore di turchi e russi, ma anche i francesi in fuga dal Sahel, la cui Françafrique vacilla sotto l’ombra dei mercenari della Wagner. Del resto uno dei principi fondamentali della geopolitica è che laddove si apre uno spazio, ci sarà sempre qualcuno pronto a riempirlo.
Il ruolo dell’Unione Africana
L’Unione Africana ha un ruolo sempre più rilevante nel continente. Partita formalmente nel 2002, si basava allora su alcuni attori di primo piano come la Libia di Muammar Gheddafi, il Sudafrica post-apartheid. “Negli ultimi anni – spiega Aldo Pigoli professore di Storia dell’Africa contemporanea all’Università Cattolica di Milano – è stata creata un’area di libero scambio a cui hanno aderito 50 paesi su 54, e che sta sempre di più funzionando”. Ma la strada da fare è ancora molta. “Un dato emblematico: nell’Ue noi abbiamo il 70% di integrazione, cioè un italiano acquista prodotti che per il 70% proviene dal resto dei paesi europei, in Africa siamo al 20% nei casi di successo”. Pigoli sottolinea inoltre l’esistenza di un’infrastruttura legislativa e politica, che sta permettendo una maggiore integrazione anche nella sicurezza, dove l’Africa ha sviluppato i propri strumenti di peacekeeping e lotta al terrorismo. “Questo fa ben sperare per il futuro del continente. Ci sono grandi potenzialità, ma servono i tempi giusti affinché certi progetti possano consolidarsi”, chiosa Pigoli.