Attentato di Nairobi, la trasformazione del terrorismo jihadista
Sono passati poco più di cinque anni dall’attacco al centro commerciale Westgate avvenuto a settembre 2013 che causò la morte di 75 persone e il ferimento di 140, e Nairobi è tornata ad essere il bersaglio del terrorismo jihadista. L’attacco di questo primo scorcio di 2019, con le sue modalità e le sue vittime, rende attendibile la rivendicazione compiuta da al-Shabaab e denota una elevata capacità tecnica, propria di gruppi terroristici maturi e strutturati.
Inoltre dimostra che gli sforzi fatti dalle autorità del Kenia, e portati avanti da due decenni per cercare di reprimere l’estremismo islamico nel paese, sono ancora lontani dall’avere effetti positivi e scongiurare il pericolo che il gruppo jihadista di Al-Shabaab colpisca nel territorio.
Non solo gli occidentali nel mirino degli attentatori
Diverse potrebbero essere le ragioni all’origine dell’attentato evidenziate dal Cesi, Centro Studi Internazionali. Prima fra tutte, che colpendo un hotel in questo preciso distretto della città, al-Shabaab ha provato a colpire presumibilmente cittadini occidentali con l’obiettivo di vendicare l’impegno dei loro governi nella lotta al terrorismo jihadista.
L’enfasi offerta dalla possibilità di uccidere (o ferire gravemente) persone provenienti dagli Stati Uniti, oltre che per ragioni storiche e simboliche, costituisce senz’altro una rappresaglia per il significativo aumento di attacchi aerei effettuati dalla US Air Force contro obiettivi in territorio somalo (ben 47 solo nel 2018). Ma non solo. Gli esperti hanno evidenziato che un attacco così spettacolare e dall’alto richiamo mediatico come quello dell’Hotel Dusit potrebbe rientrare nella logica di competizione tra al-Shabaab, ufficialmente affiliato ad al-Qaeda dal 2012, e lo Stato Islamico in Somalia (Abnaa ul-Calipha).
Due gruppi di terroristi in competizione
Negli ultimi anni non sono state poche le occasioni in cui Al-Shabaab e lo Stato Islamico in Somalia si sono affrontati per il controllo di alcuni distretti e villaggi rurali. Gli esperti ritengono che per scongiurare il rischio del declino e mantenere inalterata la propria egemonia nel panorama jihadista regionale, al-Shabaab potrebbe aver organizzato un attentato dalla grande eco propagandistica proprio per riaffermare la propria supremazia in Somalia e Kenya.
Lotte fra gruppi di potere, dunque? Potrebbe essere, visto che lo stato islamico in Somalia nell’ultimo periodo aveva aumentato il numero dei propri attentati (66 su 106 solo in Somalia), espandendo il proprio raggio d’azione anche al di fuori del Somaliland e del Puntland e accogliendo al proprio interno sempre più comandanti disertori di al-Shabaab. Il movimento jihadista dell’Africa Orientale, di contro, con l’attentato all’Hotel Dusit ha confermato a suo modo la piena regionalizzazione del gruppo nonché l’aumento delle capacità e dell’influenza di al-Hijra (ex Centro della Gioventù Islamica), la costola keniota di al-Shabaab.
Come si finanzia il terrorismo
In risposta alla domanda che si fanno in molti sui finanziamenti che servono per organizzare questo genere di attentati (da dove arrivano e come bloccare il flusso), un recente studio della Fondazione per la difesa delle democrazie di Washington, ha dimostrato che le sovvenzioni al gruppo terroristico arrivano da un ampio sistema di tassazione. Dal 2016, ad esempio, le tasse sullo zucchero e sul bestiame sono diventate sempre più importanti per al-Shabaab, specialmente dopo che gli Emirati Arabi Uniti hanno ridotto sensibilmente l’importazione del carbone somalo, che garantiva ingenti introiti al movimento estremista. E, attualmente, un importante afflusso di denaro, stimato intorno ai settanta milioni di dollari annui, arriva all’organizzazione tramite tasse, estorsioni, contributi volontari, bracconaggio, pesca e rimesse dalla diaspora somala. Tutto denaro che viene convogliato verso il reclutamento dei militanti armati, la propaganda, l’incremento del network di facilitatori e le azioni terroristiche fuori e dentro i confini.
Il rapimento di Silvia Romano
Il leader di al-Haijra, il keniota Shaykh Ahmad Iman Ali, ha avuto l’intuizione di espandere il reclutamento anche ai non-somali e di radicalizzare alcuni gruppi del Mombasa Republican Council, il movimento indipendentista della città costiera.
Tale incremento nel network di facilitatori, secondo gli esperti, potrebbe spiegare il rapimento della giovane cooperante italiana Silvia Romano, avvenuto il 20 novembre scorso nei pressi del villaggio di Chakama, nel sud del Paese. Anche se al-Shabaab non dispone di una presenza strutturata può comunque contare su milizie e bande tribali alleate che potrebbero aver rapito la nostra concittadina su ordine diretto di al-Hijra o nell’intento di “venderla” successivamente e speculare sul sequestro. Uno scenario, quest’ultimo, che aprirebbe nuove piste d’indagine sul fronte terroristico.
Strumenti malavitosi per fini politici
Il rafforzamento di al-Haijra a Eastleigh ha trasformato la zona in una roccaforte jihadista, dove nemmeno le autorità keniote riescono a penetrare e dove il movimento terroristico, grazie ad alleanze tattiche con la criminalità organizzata, ha imposto la propria autorità sul territorio. In questo senso, appare particolarmente indicativo il fatto che, proprio in quest’area, al-Haijra utilizzi metodi e strumenti malavitosi per scopi politici e terroristici. Su tutti, l’esempio più evidente riguarda il coinvolgimento delle prostitute tanzaniane, adoperate come spie in quanto solite intrattenersi con clienti particolarmente facoltosi e appartenenti al mondo imprenditoriale e istituzionale keniota.
Jihadismo keniota difficile da sconfiggere
L’attacco all’Hotel Dusit dimostra come al-Shabaab e, più in generale il jihadismo keniota, siano ancora lontani dall’essere neutralizzati e sconfitti.
I motivi possono ricondursi alle modalità di affiliazione tipiche dei clan delle diverse etnie e alle dinamiche che dominano le organizzazioni jihadiste locali rendendo complicate le operazioni di infiltrazione e il reperimento di informazioni.
Infine, capacità organizzative e logistiche sempre più affinate, l’abilità nell’ottenere il consenso delle fasce più vulnerabili della popolazione attraverso il terrore, l’assistenza sociale e le carenze delle forze di polizia rendono al-Shabaab un’organizzazione molto resiliente e, ad oggi, destinata a durare ancora a lungo.