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Il danno irreversibile di un lockdown natalizio

Il commercio sta vivendo probabilmente il suo peggiore periodo dalla Seconda Guerra Mondiale, con un calo dei consumi che si presenta ovunque in doppia cifra. Alla fine della pandemia il settore sarà profondamente diverso, con nuove abitudini dei consumatori che non vogliono però rinunciare ad acquistare

L’incertezza che caratterizza la seconda ondata pandemica è, se possibile, maggiore rispetto alla precedente. Se da un lato si può pensare di essere più preparati contro il virus sul fronte sanitario e dei protocolli di sicurezza, dall’altro l’esperienza già vissuta tra marzo e maggio aleggia come una minaccia, non mitigata da quel senso di speranza e di solidarietà che in primavera aveva un po’ sollevato in ognuno il senso di oppressione. Dopo un’estate in cui la ripresa non ha colmato le perdite dei mesi precedenti, la malaugurata seconda ondata si è manifestata, e questa volta sappiamo che i costi sociali ed economici di un rallentamento delle attività - quando non di una chiusura totale - non sarà recuperabile per molto tempo.
Il Rapporto Censis – Confimprese, presentato lo scorso 27 ottobre, pone a Natale un limite per la tenuta psicologica degli italiani e per la loro capacità di essere pronti per una nuova ripresa. La prima incognita è sapere se tutti – persone, imprese, istituzioni – sono preparate a far fronte a una crisi che si innesta su un terreno già provato economicamente e umanamente. Per il Rapporto, intitolato “Il valore sociale dei consumi”, la capacità di resistenza di fronte alle nuove restrizioni è il Natale, ma le manifestazioni di piazza di questi giorni fanno pensare che, senza precedenti segnali di ottimismo, a quella data il limite potrebbe essere già stato superato. 

 
Gestire la crisi aspettando il vaccino
Secondo i dati, circa la metà degli italiani (49,7%) è disposta ad affrontare le difficoltà della seconda ondata solo perché è convinta che a breve arriverà una cura risolutiva o il vaccino: il dato è più elevato al Sud (55,2%) e presso la popolazione anziana (53,5%). In realtà questo risveglio del virus si manifesta nel momento in cui tutti attendevano un consolidamento della ripresa, in particolare i quasi 4 milioni di famiglie che nei mesi scorsi hanno fatto ricorso alle reti di sostegno informale (parenti, amici …) per arginare le difficoltà economiche. Il 60,3% delle persone con redditi bassi ha già iniziato a tagliare i consumi per accantonare un po’ di risparmio in caso di necessità, contro una media complessiva del 37,2%.
È aumentata in questi mesi la consapevolezza che il sostegno ai consumi serve a supportare le persone e l’economia in generale (lo pensa il 76,9% degli intervistati). Sul tema, il 15% della popolazione è convinta che il lockdown sia una soluzione troppo costosa in termini di impatto, il 43,3% auspica scelte meno generalizzate, in cui le chiusure incidano solo sulle zone ad alto rischio e si lasci maggiore libertà nelle altre, per il 30% invece la salute va tutelata indipendentemente da una inevitabile sofferenza economica.

Il rischio di una crisi del commercio
I consumi sono il motore dell’economia e se si fermano quelli si ferma il paese. Secondo il Rapporto Censis-Confimprese, la somma delle restrizioni di primavera e delle attuali porterà a una perdita di valore del consumo pari a 229 miliardi di euro, il 19,5% in meno rispetto al 2019, -21,6% solo nel retail (95 miliardi di euro). La conseguenza diretta è un taglio potenziale di posti di lavoro che può arrivare a 5 milioni di unità, e che è stimato in più di 700.000 persone nel retail. Se dovessimo trascorrere il Natale in lockdown, è stimata una perdita di 25 miliardi di euro di spesa delle famiglie.
I dati sulla sofferenza del commercio sono riassunti dall’Osservatorio permanente, elaborato da Confimprese-EY, sull’andamento dei consumi nei settori ristorazione, abbigliamento e non food, ambiti che da inizio anno hanno segnato una perdita del -34,8% rispetto al 2019. Nel complesso, settembre ha segnato -13,5% rispetto allo stesso mese del 2019, è andata peggio anche in confronto al -11,9% registrato in agosto (sempre anno su anno). Soffre in modo particolare la ristorazione (-18% a settembre sul 2019), l’abbigliamento registra -12,9% e il non-food contiene i danni a un -6,9%, peggio di tutti il settore turistico con -55% nel mese e -62% sul progressivo annuo.
Si tratta di una contrazione frutto delle circostanze e non di un definitivo cambiamento nei comportamenti degli italiani che, anzi, per il 57% ritengono che il benessere soggettivo dipenda molto dalla libertà di acquistare i beni e i servizi che si desiderano e per il 79,4% si dicono convinti che gli acquisti riflettano l’identità e i valori di chi consuma.

Cambiano i riferimenti per la spesa
I mesi dell’emergenza e quelli seguenti hanno evidenziato una marcata modifica nei comportamenti di consumo, con 18 milioni di persone che hanno cambiato i negozi o i brand di riferimento, hanno gestito in modo diverso la spesa (13 milioni quelli che fanno riferimento ad altri negozi per i beni alimentari) e modificato i criteri di scelta dei luoghi di acquisto, privilegiando la spesa di prossimità e la vita di quartiere: comportamento indotto probabilmente anche dal lavoro in smart-working e dal calo della mobilità urbana. Le città di provincia e le aree periferiche delle metropoli sono quelle dove i negozi hanno registrato un minore calo delle vendite (-9,8% a settembre), mentre i centri commerciali segnano -15,1%, gli outlet -10,3% e le vie dello shopping delle grandi città arrivano a -19,7%.
Il ritorno al lavoro ha riconfermato la tendenza del periodo di lockdown all’acquisto online, con un +22,7% che è di 5 punti superiore al totale di agosto. Si tratta di dati che sono indice di nuovi comportamenti di consumo la cui reversibilità è tutta da vedere: nel periodo dell’emergenza il 42,7% ha acquistato online prodotti che prima comprava in negozio, i clienti più assidui sono soprattutto i giovani (52,2%) e i laureati (47,4%). L’incognita sul futuro del retail e delle famiglie che vivono dell’attività commerciale è tutta nel 38% di italiani che afferma di non tornare alle vecchie abitudini di consumo dopo la pandemia.