Pericoli e responsabilità della professione infermieristica
Secondo i risultati raccolti somministrando online il questionario fornito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, gli episodi di violenza fisica ai danni di questi professionisti sanitari sarebbero assai comuni. Nel 4% dei casi essi sarebbero stati addirittura vittime di minacce con armi da fuoco.
La violenza sul lavoro è un fenomeno che diventa sempre più allarmante in tutto il mondo. Il costo per l'individuo, il datore di lavoro (e spesso per i suoi assicuratori), e per la comunità in generale, è assai cospicuo. Eppure, la dimensione del problema è praticamente sconosciuta.
Sebbene gli episodi di violenza si verifichino in tutti gli ambienti di lavoro, alcuni settori sono particolarmente esposti. Nursing Up ha deciso di partecipare attivamente a un’analisi internazionale, per comprendere quali fossero gli strumenti più efficaci per analizzare il fenomeno della violenza sul lavoro nella sanità, traducendo in italiano e somministrando ai propri iscritti il Workplace violence in the health sector survey questionnaire, preparato all’uopo dall’Onu-Oms.
Il questionario è suddiviso in varie sezioni: una socio-anagrafica e due sulla violenza fisica e psicologica. La sezione della violenza psicologica è suddivisa a sua volta in 6 sottocategorie: aggressione, bullismo e mobbing, molestie sessuali, molestie a sfondo razziale e minaccia.
Obiettivo: acquisire informazioni sulla violenza nei luoghi di lavoro nel settore dei servizi sanitari in Italia, esaminando i fattori che possono favorire questo fenomeno e le strategie per prevenirlo e individuando le politiche più appropriate a fronteggiarlo.
Il risultato dell’indagine è piuttosto allarmante. Circa il 36% degli infermieri si dice abbastanza preoccupato degli episodi di violenza nel luogo in cui lavora. In quasi tutti i casi la violenza fisica si sarebbe verificata all’interno del reparto di riferimento: per lo più ad opera dei pazienti o di loro familiari.
Un terzo di quanti hanno subito violenza fisica ha subito anche lesioni che necessitavano di cure mediche e circa la metà del campione analizzato afferma di essere stato oggetto di aggressioni verbali.
Un dato allarmante consiste nel fatto che la maggior parte delle vittime afferma che sul proprio luogo di lavoro non sono previste modalità di segnalazione o incentivazioni a segnalare gli atti di violenza subiti. Molti lavoratori riferiscono sintomi riconducibili al disturbo post traumatico da stress: si sentono cioè isolati, anche perché, in seguito all’eventuale segnalazione della violenza subita, vi sarebbero stati richiami solo verbali agli aggressori e non sarebbe stata adottata alcuna misura particolare, malgrado le allarmanti conseguenze psico-fisiche che pesano sulla loro vita e sulla qualità del loro lavoro.
Nursing Up ha quindi deciso di lanciare la campagna #noviolenza sugli infermieri e ha chiesto di apportare modifiche al Ddl Antiviolenza già approvato dal Senato, introducendo la denuncia d’ufficio da parte delle strutture sanitarie, invitate a costituirsi parte civile nei procedimenti penali a carico degli aggressori.
L’evoluzione del ruolo dell’infermiere
L’aumento degli episodi di violenza sugli infermieri sembra costituire un altro segno tangibile del mutamento che ha interessato questa categoria di professionisti, determinando la trasformazione di un’attività intesa come ausiliaria a quella medica, in una vera e propria professione sanitaria, dotata di profilo e codice deontologico propri.
Come sappiamo, quella dell’infermiere è oggi un’attività che rientra nel disposto dell’art. 2229 del C.C., che norma le professioni intellettuali, per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione ad un apposito albo professionale.
È stata soprattutto la legge n. 42/1999: Disposizioni in materia di professioni sanitarie, che ha conferito pieno riconoscimento giuridico all'attività di questo professionista.
Con l’abrogazione del mansionario sino a quel momento adottato, è stato quindi istituito il Codice Deontologico dell'Infermiere, approvato dalla Federazione e Collegio Ip.As.Vi, che costituisce ancora oggi la guida principale sulla condotta etica e professionale di questi operatori sanitari.
Dobbiamo poi alla legge n. 42/1999 l’attuale definizione della Professione Sanitaria di Infermiere, riconosciuta come attività propria e non semplicemente di supporto, con il definitivo superamento della distinzione tra professioni sanitarie principali, come quella del medico, e professioni ausiliarie, come quelle degli infermieri.
Tale norma ha rafforzato l’autonomia di questa professione, anticipando i contenuti della legge 251/2000 che ha infine istituito la dirigenza sanitaria, gli ordinamenti didattici e i corsi di laurea per questa specialità.
L’infermiere, oltre a collaborare con le altre figure sanitarie (medici, fisioterapisti, tecnici di radiologia, etc.) in una visione multidisciplinare dell'assistenza al malato, coordina il lavoro degli ausiliari, attenendosi alle prescrizioni terapeutiche e diagnostiche del medico. Egli è anche responsabile del lavoro svolto dalle figure di supporto alle quali delega le attività di assistenza infermieristica di base.
Il campo d'azione comprende interventi nell'ambito della prevenzione, delle cure palliative e della riabilitazione.
Le responsabilità della professione
Di recente è stata anche istituita una specifica branca professionale definita Infermieristica Forense, nel cui ambito operano gli infermieri che abbiano conseguito un apposito master universitario, la cui funzione intende contribuire all’individuazione di problematiche in ambito sanitario e legale, sia per le persone assistite che per agli stessi operatori.
Questo professionista, invece che essere un semplice esecutore, svolge insomma un ruolo sempre più attivo, che prevede la facoltà di prendere iniziative e decisioni, nel quadro della competenza specifica che gli viene riconosciuta.
La sicurezza in sala operatoria, ad esempio, a causa del numero di soggetti coinvolti all’interno dell’équipe chirurgica e delle condizioni usualmente critiche dei pazienti, assume una particolare rilevanza ed è ovvio che le mansioni espletate espongano questi operatori sanitari a vari rischi.
Lo strumentista (o ferrista), ad esempio, è responsabile del mantenimento della sterilità del campo operatorio e della vestizione del chirurgo. Suo compito precipuo, in diretta collaborazione con il resto dell'equipe medico-chirurgica, è rappresentato dal passaggio degli strumenti e dalla conta di ferri e garze (la principale fonte di responsabilità per tale attività deriva quindi dalla dimenticanza di questi strumenti all’interno del paziente).
L’infermiere di sala si occupa invece della preparazione delle apparecchiature e del corretto posizionamento del paziente sul lettino operatorio, nonché del funzionamento di tutti i dispositivi utilizzati per l’intervento chirurgico: un errore tipico che può dipendere da questo operatore è dunque costituito dall’intervento su un organo errato o da una procedura scorretta di posizionamento, che potrebbe provocare al malato lesioni a nervi, muscoli e tendini.
L’infermiere anestesista, infine, coadiuva il medico anestesista e collabora con lui nella preparazione del materiale occorrente per la sedazione e/o l’intubazione del paziente e per altre eventuali pratiche che si rendessero necessarie in quest’ambito.
L’autonomia conquistata, insomma, comporta, in caso di violazione delle cosiddette “buone pratiche” in materia di sicurezza del paziente, l’essere chiamato a rispondere del danno prodotto in sede civile, penale, disciplinare e amministrativa, né più né meno di quanto succede ai medici.
È accaduto che la Corte di Cassazione abbia ritenuto colpevoli gli infermieri coinvolti nella somministrazione di protossido di azoto (invece che ossigeno) a un paziente, nonostante l’errore di innesto dei tubi di questi gas nel corso dell’intervento fosse stato commesso materialmente da altri soggetti (Cass. Pen. n. 4385/1995).
In un altro caso, invece, la giurisprudenza di merito ha ritenuto l’infermiere unico responsabile per le gravi ustioni riportate da una paziente a causa dell’inadeguato posizionamento della piastra dell’elettrobisturi, escludendo la responsabilità dei medici presenti (Tribunale di Monza, 23 ottobre 2006).
Nel 2017 la Suprema Corte Penale ha dichiarato l’infermiere anestesista responsabile della morte di un paziente che, sottoposto a intervento chirurgico in anestesia totale, aveva subito un arresto cardiocircolatorio in fase postoperatoria, riportando lesioni gravissime e coma irreversibile. Linee guida e protocolli ospedalieri prevedono infatti una precisa posizione di garanzia dell’infermiere, che si era allontanato mentre era responsabile di monitorare la fase di recupero del paziente dopo il risveglio.
In seguito all’abolizione del mansionario, che stabiliva rigidamente le attività di competenza infermieristica, distinguere le prestazioni di pertinenza medica da quelle demandate agli infermieri e agli altri operatori sanitari può risultare alle volte complicato. In genere, si individua come competenza specifica del medico l’attività di diagnosi e cura, mentre l’attività assistenziale è riservata all’infermiere.
Il pronto soccorso e la somministrazione dei farmaci
Grava inoltre sull’infermiere la responsabilità del triage di pronto soccorso, nel quale l’operatore sanitario, sempre sotto la supervisione del medico di servizio e nel rispetto dei protocolli predisposti, è chiamato a valutare la gravità dei sintomi del paziente, per procedere all'assegnazione del relativo codice di priorità (codice rosso: emergenza; codice giallo: urgenza; codice verde: problema acuto; codice bianco: problemi lievi). In quest’ottica, eventuali profili di responsabilità possono derivare da una valutazione errata dello stato di salute del paziente, il che può comportare la scelta di provvedimenti non adeguati alle sue effettive condizioni cliniche e se ciò dovesse condurre ad un aggravamento o al decesso dello stesso, l’infermiere potrebbe rischiare un’imputazione penale per lesioni colpose od omicidio colposo.
È poi questa certamente la figura professionale alla quale viene più frequentemente associata la responsabilità derivante dalla somministrazione dei farmaci.
Mentre l’abrogato mansionario attribuiva a questo operatore un ruolo squisitamente esecutivo, la sua autonomia e responsabilità nell’ambito di tale attività vanno oggi ben al di là del semplice rispetto delle procedure. Se la prescrizione rappresenta l’atto proprio del medico, che individua il farmaco più appropriato sulla base della diagnosi e del trattamento più idoneo alla specifica patologia, l'interpretazione della terapia, l’eventuale preparazione e la somministrazione del farmaco sono atti propri dell'infermiere. Sarà infatti costui che, verificata la prescrizione del medico e la corrispondenza del paziente con la terapia indicata, somministrerà il farmaco.
I protocolli infermieristici indicano una serie di controlli generali da effettuarsi per eliminare o ridurre al minimo la possibilità di errore nel processo di somministrazione della terapia. L’infermiere deve infatti verificare che la prescrizione medica sia reperibile nella cartella clinica (o nella cartella infermieristica) e che la stessa contenga tutti gli elementi necessari a garantire una corretta somministrazione.
In questo senso, la normativa prevista dalla legge 219/2017 ha recentemente ampliato le fattispecie di responsabilità dell’infermiere, per le questioni inerenti il consenso dell’assistito a ricevere le cure stabilite e in genere la cura nella compilazione e manutenzione della cartella infermieristica.
Le circostanze che interessano le diverse responsabilità di questo soggetto professionale sono comunque ancora numerose e riguardano ad esempio le problematiche relative ai problemi di contenzione dei pazienti, all’interno delle case di cura e Rsa e molte altre ancora.
Nell’ambito dei soggetti che operano all’interno del sistema sanitario, insomma, la professione infermieristica si è radicalmente evoluta e ha così acquisito profili di responsabilità non molto diversi da quelli tradizionalmente attribuiti ai medici. Ciò ha comportato, come abbiamo visto, anche un mutamento nella percezione che dell’infermiere hanno i soggetti ai quali il servizio sanitario stesso è diretto, che hanno cominciato a personalizzare il rapporto tra paziente e operatore, al punto da rendere quest’ultimo vittima di minacce e di percosse.