L’evoluzione della minaccia terroristica nell’era digitale
L’Isis inteso come Califfato è stato sconfitto. Ma l’Isis inteso come organizzazione terroristica è ancora vivo e pronto ad agire. La minaccia terroristica di gruppi e singoli militanti jihadisti è ancora rilevante, sia in Medio Oriente sia in Occidente. Il problema dei foreign fighters presenti in Siria e Iraq si è acuito negli ultimi mesi, mentre altre forme di radicalizzazione guadagnano terreno, specialmente online. Internet si conferma, infatti, un ambiente di primaria rilevanza sia per la propaganda terroristica sia per la risposta antiterroristica.
Qual è la sua effettiva forza? Come si può tenere sotto controllo il fenomeno dei cosiddetti lupi solitari? E ancora: cosa fare delle migliaia di foreign fighters con passaporto europeo pronti a rientrare nel vecchio continente dal fronte siriano-iracheno? Come stanno cambiando i processi di radicalizzazione su internet e come possono essere contrastati? A queste, e a molte altre domande hanno provato a rispondere un panel di persone con una profonda conoscenza del tema, riuniti a Milano dall’Ispi per una conferenza che si è tenuta lo scorso 6 febbraio.
Cosa fare dei foreign fighters
Partiamo dal fenomeno dei foreigh fighters, coloro che dai Paesi dell’Occidente sono andati a combattere in Siria e Iraq per sostenere la causa dell’Isis. Rispetto ad altri Paesi europei, in Italia il fenomeno è molto contenuto: le stime parlano di circa 150 persone, poca cosa rispetto ai circa 2.000 della Francia. “In Europa – ha spiegato Francesco Marone, ricercatore dell’Università di Pavia – ci sono decine di migliaia di radicalizzati, molto diversi tra loro: si va dai simpatizzanti online a coloro che mettono in atto nel concreto gli attentati terroristici”. La minaccia è molto subdola e spesso di annida all’interno di ambiti inaspettati: il ministro degli interni francese ha riferito che la polizia transalpina ha aperto 106 inchieste interne su possibili radicalizzazioni all’interno del corpo.
“I foreign fighters europei sono circa 5.000, molti dei quali, secondo una stima dell’Europol, sono tornati in Europa. La polizia li monitora. Il caso del recente attentato di Londra riguarda uno jihadista conosciuto e tenuto sotto osservazione, e il fatto che nonostante ciò sia riuscito a mettere in atto un attentato è emblematico sulla difficoltà di sorvegliare il fenomeno”.
Resta un tema aperto quello di riportare in patria (come vorrebbero gli americani) i foreign fighters: nessun Paese europeo li vuole rimpatriare e processare.
Una strategia controproducente
La testimonianza diretta di chi ha assistito in prima persona alla caduta del Califfato è stata portata da Lucia Goracci, giornalista Rai, che è intervenuta in collegamento video”. “L’Isis ora è significativamente ridimensionato – ha detto – ma non definitivamente sconfitto”. Il tema ora è il sistema di alleanze. Le forze che hanno sconfitto il Califfato non sono nostre alleate. Ci sono state delle azioni contraddittorie, si pensi alla decisione di Donald Trump di uccidere il generale iraniano Souleimani. Goracci lo ha definito “un brutto colpo alla lotta all’Isis perché le milizie sciite erano state in prima linea nella lotta all’Isis”. Analogo discorso tra Turchia e Curdi, l’altro alleato dell’Occidente ora venuto meno. Notizia di queste ore è che le forze curde stanno annunciando di voler partire già nei prossimi mesi con i processi agli affiliati dell’Isis. C’è inoltre il problema delle mogli e dei figli dei militanti: come ci si comporterà nei loro confronti? “La guerra è vinta, ma non si sta lavorando sulla prevenzione di lungo periodo, e anzi, si stanno rompendo i ponti con coloro che sono stati in nostri alleati che hanno combattuto l’Isis in prima fila”, ha ribadito l’inviata Rai.
Il terrorista della porta accanto
Nel 2019 ci sono stati 144 attacchi suicidi in 34 diversi Paesi del mondo, condotti da gruppi di varia natura, il dato è in calo, nel 2018 erano 293. Secondo Guido Olimpio, inviato del Corriere della Sera, questa materia è in continua evoluzione, “possiamo solo fare un’istantanea di ciò che vediamo ora”. Olimpio ha individuato tre tipologie di terroristi. Il primo è il solido: di solito è un ex carcerato ha un profilo marcato, una preparazione ideologica profonda, tendenzialmente ha militato nelle file di Al Quaeda, “organizzazione che, a differenza di quanto fatto dall’Isis aprendo le porte a tutti, è stata sempre molto alla preparazione teologica dei propri affiliati. La seconda tipologia è quella degli ispirati: “sono persone non direttamente legato allo Stato islamico, che però compiono attentati in suo nome”. La nascita delle cellule terroristiche avviene nello stesso nucleo: famiglia, amicizie, lo stesso condominio. La terza e ultima categoria è quella degli ibridi, cioè terroristi che mescolano ragioni personali con ragioni ideologiche. Quest’ultima categoria ha ora una nuova dimensione con l’arrivo dei “caotici”, cioè coloro che dicono di “sentire le voci”, persone instabili che passano all’azione, tanto che persino l’Isis è talvolta cauta del rivendicare attacchi portati avanti da queste persone. “Alcuni di questi, e non sono pochi, vogliono esplicitamente essere uccisi, per attuare un martirio, nel corso dei loro attacchi, e questo è il motivo per cui scelgono come obiettivi la polizia o i militari”, ha spiegato Olimpio, sottolineando che “queste stesse dinamiche si possono trasporre ai terroristi xenofobi, che agiscono secondo gli stessi percorsi mentali dei terroristi ispirati”.
Monitorare la comunicazione in ottica prevenzione
Gran parte del successo dell’Isis è dovuto alla sua strategia di comunicazione. “L’Isis – ha spiegato Matteo Colombo, analista dell’Ispi – ha pensato a una strategia di comunicazione studiata per pubblici diversi. La centralità ce l’hanno internet e i social, che eliminano le distinzioni tra chi simpatizza e chi ne fa parte”. Sulla base di un’analisi di tweet visionati dal 2014 al 2017, Colombo ha osservato come i temi trattati dall’Isis che prima puntavano molto sul tema della vittoria ora sono cambiati, guardando al lungo periodo.
Per prevenire la radicalizzazione, ha spiegato Sabrina Martucci, professore aggregato presso l’Università Aldo Moro di Bari, occorre creare sinergia tra gli attori sociali. Martucci ha portato la propria esperienza relativa a un esperimento avvenuto a Bari per un percorso di de-radicalizzazione deciso da un magistrato. “L’intervento nasce dalla necessità di intervenire su soggetti simpatizzanti ma non arrestabili, ha detto - sono percorsi che abbiamo orientato al depotenziamento della minaccia, nel solco della Costituzione”.
Secondo Alberto Nobili, responsabile antiterrorismo presso la Procura della Repubblica di Milano, “ogni cittadino può dare il proprio contributo mantenendo la calma, non prestando il fianco a chi prova a seminare paura e incertezza”. Nobili ha ringraziato le Forze dell’Ordine “per il meticoloso lavoro che fanno, invisibile e molto duro”, e ha sottolineato uno dei fattori che rendono più difficile il lavoro di contrasto: l’invisibilità. “Quando dall’antimafia sono passato all’antiterrorismo mi sono trovato a lottare contro un nemico invisibile: i mafiosi infatti sapevamo chi fossero, conoscevamo i loro nomi e le loro residenze ufficiali”. Dei terroristi invece non si sa niente: in questo momento, infatti, chiunque potrebbe trovarsi davanti al proprio pc e farsi irretire dalla propaganda.
“I terroristi – ha detto Nobili – non arrivano coi barconi, ce li troviamo in casa. Spesso si tratta di cittadini di seconda generazione”. E spesso sono le stesse famiglie che segnalano alle Forze dell’Ordine casi di radicalizzazione. “Molti ragazzi si drogano di propaganda online, subendo un vero e proprio bombardamento ideologico”. A Milano attualmente ci sono “una cinquantina di soggetti che stiamo monitorando”, ha rivelato Nobili. E tra le persone controllate, ha riferito, ci sono anche delle donne, “che sembrano molto più determinate rispetto agli uomini”.