I falsi miti sugli italiani che emigrano
Mentre l’opinione pubblica è concentrata sugli arrivi nel nostro paese, la Fondazione Migrantes dal 2006 realizza il Rapporto Italiani nel Mondo (RIM) che racconta l’Italia partita per il mondo, quella parte di Italia che non ha mai smesso di emigrare. E l’edizione 2020 del Rapporto rivela che gli italiani all’estero oggi sono quasi 5,5 milioni: un numero che non passa inosservato.
In 15 anni il RIM ha fotografato un fenomeno migratorio con un incremento paragonabile a quello registrato nel secondo Dopoguerra. Nel 2006, infatti, gli italiani regolarmente iscritti all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE) erano 3.106.251 e in quindici anni sono aumentati del 76,6%. Una crescita ininterrotta che ha visto sempre più assottigliarsi anche la differenza di genere: le donne sono passate dal 46,2% sul totale iscritti 2006 al 48% del 2020.
Tra il 2006 e il 2020 la presenza italiana all’estero si è consacrata euroamericana, ma lo sguardo degli italiani si è spostato anche a Oriente, più precisamente verso gli Emirati Arabi e la Cina.
Sempre più giovani e con figli al seguito
Nel 2019 (gennaio-dicembre) hanno lasciato l’Italia ufficialmente 131 mila cittadini verso 186 destinazioni del mondo da ogni provincia italiana. Complessivamente, le nuove iscrizioni all’Aire nel 2019 sono state 257.812 (di cui il 50,8% per espatrio, il 35,5% per nascita, il 3,6% per acquisizione cittadinanza).
Si tratta di una collettività che via via negli anni, rispetto al 2006, sta ringiovanendo grazie alle nascite all’estero (+150,1%) e alla nuova mobilità costituita sia da nuclei familiari con minori al seguito (+84,3% della classe di età 0-18 anni) sia dai giovani e giovani adulti immediatamente e pienamente da inserire nel mercato del lavoro (+78,4% di aumento rispetto al 2006 nella classe 19-40 anni).
Preferenza per Sud America e Europa
Il RIM rivela che il numero di italiani che vivono nel continente americano, soprattutto l’area latino-americana, è cresciuto grazie alle acquisizioni di cittadinanza (+123,4% dal 2006) coinvolgendo soprattutto il Brasile (+221,3%), il Cile (+123,1%), l’Argentina (+114,9%) e, solo in parte in quanto la crisi è sicuramente più recente, il Venezuela (+47,4%). Oltre il 70% (+793.876) delle iscrizioni totali avute in America dal 2006 ha riguardato soltanto l’Argentina (+464.670) e il Brasile (+329.206).
La presenza di italiani sparsi in Europa, invece, negli ultimi quindici anni, è cresciuta maggiormente grazie alla nuova mobilità (+1.119.432, per un totale, a inizio 2020, di quasi 3 milioni di residenti totali). A dimostrarlo gli aumenti registrati nelle specifiche realtà nazionali. Se, però, i valori assoluti fanno risaltare i paesi di vecchia mobilità come la Germania (oltre 252 mila nuove iscrizioni), il Regno Unito (quasi 215 mila), la Svizzera (più di 174 mila), la Francia (quasi 109 mila) e il Belgio (circa 59 mila), sono gli aumenti in percentuale, rispetto al 2006, a far emergere le novità più interessanti. Per questi stessi paesi, infatti, si riscontrano le seguenti indicazioni: Germania (+47,2%), Svizzera (+38%), Francia (+33,4%) e Belgio (+27,3%). Per il Regno Unito, invece, e soprattutto per la Spagna, gli aumenti sono stati molto più consistenti, rispettivamente +147,9% e +242,1%. Le crescite più significative, comunque, dal 2006 al 2020, restando in Europa, caratterizzano paesi che è possibile definire “nuove frontiere” della mobilità: Malta (+632,8%), Portogallo (+399,4%), Irlanda (+332,1%), Norvegia (+277,9%) e Finlandia (+206,2%).
Il falso mito dei “cervelli in fuga”
Se nel 2006, stando ai dati Istat, il 68,4% dei residenti ufficiali all’estero aveva un titolo di studio basso – licenza media o elementare o addirittura nessun titolo –, il 31,6% era in possesso di un titolo medio-alto (diploma, laurea o dottorato). Dal 2006 al 2018 si assiste alla crescita in formazione e scolarizzazione della popolazione italiana residente oltreconfine: nel 2018, infatti, il 29,4% è laureato o dottorato e il 29,5% è diplomato mentre il 41,5% è ancora in possesso di un titolo di studio basso o non ha titolo.
Ma ecco un falso mito sugli italiani che lasciano l’Italia. Se rispetto al 2006 la percentuale di chi si è spostato all’estero con titolo alto (laurea o dottorato) è cresciuta del +193,3%, per chi lo ha fatto con in tasca un diploma l’aumento è stato di ben 100 punti decimali in più (+292,5%). Alla luce di questi dati, la narrazione della mobilità raccontata come quasi esclusivamente composta da italiani altamente qualificati, occupati in nicchie di lavoro prestigiose e specialistiche, che lasciano il paese in cerca di maggior considerazione e fortuna, si scontra con la realtà di un maggiore e consistente numero di diplomati che emigrano all’estero alla ricerca di lavori generici.
Il divario Nord-Sud non basta
Nel 2020, la Fondazione Migrantes, supportata dalla Commissione Scientifica del RIM, ha approfondito lo studio sul contesto territoriale di provenienza degli italiani emigrati all’estero con un inedito dettaglio: l’analisi provinciale realizzata su 40 province italiane, distribuite tra l’estremo nord e l’estremo sud dell’Italia. Lo studio ha consentito di evidenziare un secondo falso mito sulla mobilità italiana odierna: si emigra dal Nord Italia, è vero, ma anche dalle “zone interne” del paese.
È assodato infatti che la prima regione da cui si parte per l’estero oggi in Italia è la Lombardia (seguita dal Veneto), ma l’attuale mobilità non è una questione del Nord Italia. Tra il Settentrione e il Meridione di Italia ci sono divari profondi, ma quanto questi squilibri abbiano a che fare con la mobilità spesso lo si ignora, così come si è poco consapevoli che la narrazione di una nuova mobilità, soprattutto dal Nord Italia, spesso urta con la realtà. Il vero divario, fanno notare gli esperti del RIM, non è tra Nord e Sud, ma tra città e aree interne. Sono luoghi che si trovano al Sud e al Nord, ma che al Sud diventano doppia perdita: verso il Settentrione e verso l’estero. A svuotarsi sono i territori già provati da spopolamento, senilizzazione, eventi calamitosi o sfortunate congiunture economiche.
Non si dimentica il paese d’origine
Lo studio della Fondazione Migrantes ha messo in evidenza un fenomeno che merita di essere ulteriormente approfondito: l’attaccamento degli italiani che si sono trasferiti all’estero e che continuano a sentirsi comunità con il proprio paese di origine. Un esempio valga su tutti: il 23 novembre 2020 cadrà il 40° anniversario del terremoto più catastrofico della storia repubblicana, quello che colpì Campania e Basilicata. Ancora oggi queste aree sono provate nelle loro zone interne da numerose partenze, ma contemporaneamente mantengono all’estero il grande valore di comunità numerose, con tradizioni e peculiarità specifiche. Si tratta di migranti che guardano ai luoghi di origine con nostalgia, interesse e voglia di cambiare le cose. Sono spesso italiani che già partecipano attivamente alla vita dei luoghi di origine, pur restando nella loro posizione di migranti stabilmente in mobilità tra l’Italia e l’estero, tra migrazioni interne e migrazioni internazionali, in Europa o oltreoceano.
Emerge, in modo evidente, la necessità che lo studio e l’analisi della mobilità sia sempre più centrata sui microcontesti e che il territorio venga letto mettendo in crisi i modelli dati per acquisiti, a cominciare dall’egemonia del centro, e quindi delle metropoli, rispetto ai piccoli centri, ai borghi, a quei pezzi di territorio spesso abbandonati del tutto o quasi abbandonati che diventano luoghi dove, invece, è possibile intervenire per ridare loro vita. Si tratta, in altre parole, di territori che oggi hanno bisogno di trovare uno sguardo di prossimità che sappia esaltare la persona e le sue relazioni, uno sguardo che vada oltre la tradizione e abbia imparato dalla pandemia cosa significhi essere prossimi nella distanza.