Le debolezze delle nostre pensioni (e del nostro welfare)
L’Italia è tra i primi cinque paesi al mondo per livello di protezione sociale offerta alla propria popolazione e al terzo posto per rapporto tra spesa sociale e Pil. È però anche un paese nel quale su 16 milioni di pensionati sette sono parzialmente o totalmente assistiti, mentre il grosso del carico fiscale, e dunque anche del finanziamento del welfare state, grava sulle spalle di uno sparuto 13% di contribuenti (quelli con redditi da 35mila euro in su) che, da soli, corrispondono quasi il 60% dell’Irpef. Il tutto, in una società che invecchia e che, spinta da una politica alla ricerca del facile consenso, continua a rivendicare sussidi, bonus o agevolazioni.
Alberto Brambilla, presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali
Bastano questi pochi dati per smentire la vulgata comune secondo cui l’Italia spende poco per il welfare, e per capire quanto la sostenibilità del nostro sistema previdenziale non possa prescindere da quella del sistema Italia, a propria volta condizionata da debito pubblico e ricchezza annuale prodotta. Se il rapporto debito pubblico/Pil che, malgrado la svalutazione prodotta dall’inflazione, nel 2023 dovrebbe toccare quota 145% (la media Ue 2022 è del 94%) rappresenta quindi un primo problema, il secondo elemento critico riguarda il nostro rapporto lavoratori attivi/pensionati. Al 2021, ultimo anno di rilevazione disponibile, l’Italia contava 1,4215 lavoratori attivi che versano i contributi per ogni pensionato: ancora distante quell’1,5 che rappresenterebbe la soglia minima necessaria per la stabilità di medio-lungo termine di un sistema a ripartizione. E se da una parte, sempre che si riescano a tenere sotto controllo gli effetti della guerra in Ucraina su materie prime ed energia, occorrono incentivi per l’occupazione e politiche industriali che sappiano anche capitalizzare le risorse del Pnrr, dall’altra è fondamentale tenere sotto controllo i (troppi) meccanismi di pensionamento anticipato.
Andare oltre le misure assistenziali
Proprio qui sta la terza debolezza, nella gara tra partiti e sindacati per ridurre le età di pensionamento: 64,3 anni quella effettiva al 2021 se si considera il complesso delle pensioni di anzianità, vecchiaia e dei prepensionamenti. Tra salvaguardie, Ape, quote e così via, ci si è inventati di tutto, togliendo al sistema regole certe in favore di un’autentica giungla pensionistica, che ha favorito questa o quella categoria senza contribuire alla flessibilità strutturale di cui pure ci sarebbe stato bisogno dopo la riforma Monti-Fornero.
Basso numero di occupati, aumento del numero dei pensionati ed eccessive decontribuzioni hanno prodotto un deficit tra entrate e uscite di 30 miliardi: il ripianamento sarà a carico dello Stato e di quelli, pochi, che pagano le tasse. Nonostante i titoli che celebrano un’occupazione da record, c’è poi un ultimo tema da non trascurare: l’Italia continua a essere per tasso di occupazione globale (60%), fanalino di coda in Europa, dove persino la Grecia fa meglio con il 60,6% (69,9% la media Ue). Ma a mancare non è il lavoro, quanto piuttosto politiche e strumenti adeguati a favorire l’incontro di domanda e offerta, troppo spesso trascurati in favore di misure assistenziali che finiscono con l’aggravare un debito pubblico già monstre, a discapito proprio delle giovani generazioni.
Salvaguardie, Ape e quote hanno favorito un’autentica giungla pensionistica