Conversare, un’arte che non conosciamo
È difficile sopravvalutare il ruolo dei social network nella nostra vita quotidiana. Dare un’occhiata a Facebook, Twitter, Instagram, Linkedin ecc. non è forse la prima e l’ultima cosa che molti di noi fanno ogni giorno? Essi sono straordinari amplificatori di ‘conversazione’, per dirla con Leopardi, anche se non sfuggono di certo alla legge “garbage-in, garbage-out”. Guardare a come li usiamo, dunque, è un po’ come guardarci allo specchio.
Ma, come il poeta (che fu anche grande filosofo e fustigatore dei costumi italici) registrava già un paio di secoli fa, la ‘conversazione’ nel nostro paese è cronicamente scarsa e scadente, centrata sullo scherno e sull’irrisione, così si esprimeva, in comparazione con quella di altri paesi. Lo era allora e lo è, forse, tuttora. Almeno è quanto appare nei nostri social network. In parte è, però, da attribuirsi al mezzo stesso, che si presta facilmente alla contiguità con le reazioni più emotive. In parte, forse, va invece attribuito al nostro ritardo storico nello sviluppo di quel luogo nel quale si discute usualmente di temi d’interesse pubblico, e che denominiamo sfera pubblica. Quindi, analoghi limiti, diciamo così, istituzionali, li dovremmo riscontrare anche nella nostra stampa, al bar, ai giardinetti o in coda alle fermate dei mezzi pubblici.
Grandi potenzialità, scarse risorse
A fronte di questo ritardo, andrebbe anche considerata una certa precocità italiana che è presente in tanti tratti della nostra storia extra-istituzionale, dove cioè si incontrano persone e produzioni culturali (dalla gastronomia alla pittura, dalla tecnologia al paesaggio) eccezionali, all’avanguardia in ogni settore, ieri come oggi, e gli stranieri che affollano le nostre città e apprezzano i nostri prodotti ce ne sono buoni testimoni.
Da questa discrasia, la cui ascendenza storica è facilmente rintracciabile nella inceppata molla della formazione di uno stato nazionale, che ha caratterizzato la modernità in tutto il mondo, sorge, infatti, un ricorrente conflitto fra potenzialità immense e realizzazioni a volte scadenti che non è senza conseguenze. Invece della metafora di nani sulle spalle di giganti, che ha segnato la modernità in tutto il mondo, siamo troppo spesso bambini a cavallo di moto molto potenti e tendiamo ad andare a sbattere il muso, sovente fra di noi. Usare cannoni più potenti richiede un’artiglieria meglio organizzata. E qui, in questa carenza di strutture, che sono contemporaneamente il sistema scheletrico e il sistema nervoso di una democrazia avanzata, il nostro paese, effettivamente, è carente, pur non essendo il solo, a quanto scorgeremmo da una panoramica spregiudicata su tutto l’Occidente.
La responsabilità di chi indirizza la comunicazione
I nuovi media non sono, invero, i luoghi più adatti a lunghe mediazioni; funzionano magnificamente nella nostra ‘bolla’, ma non facilitano la critica e il reciproco aggiustamento delle opinioni. D’altronde non è compito di poco conto questo, come la rissosità di ogni Parlamento al mondo testimonia. La tentazione di usarli come prolungamento extracorporeo per i nostri umori (e i nostri retropensieri) è comprensibilmente forte. Ecco che, allora, diviene interessante l’uso che dei social possono fare e di fatto fanno i politici, poiché è uno strumento che può lavorare per esaltare i difetti della “conversazione”, ma può anche sanarla, recuperando la cronica lontananza fra governanti e governati che in passato ha favorito certe pulsioni antidemocratiche, che ogni tanto sembrano ripresentarsi. Sarebbe, comunque, da evitare di appiattire i primi sui più bassi livelli dei secondi, facendo invece fluire risorse vitali e senso della realtà lungo i gangli della vita pubblica, vivificando al contrario la democrazia nel nostro Paese. Ecco qui, per inciso, il ruolo costituzionale della scuola.
Se, e nella misura in cui, sapremo farlo, non solo la nostra vita quotidiana, ma anche il tenore democratico della Repubblica avranno un futuro più roseo di quanto un autorazzismo, un po’ provinciale e molto manierato, che faremmo bene a dismettere quanto prima, ci spinge usualmente a crogiolarci che sia.