Economia e dazi: non c’è ottimismo
Incertezza e rischio non sono la stessa cosa: viviamo un periodo dalle prospettive incerte, ma non è detto che si trasformino in rischi concreti. Dal punto di vista teorico, la differenza tra incertezza e rischio è che nel secondo caso si possono calcolare delle probabilità: ciò che possono fare le imprese è conoscere gli elementi di incertezza del presente per trasformarli in rischi possibili, quindi misurabili ed eventualmente assicurabili.
Con questa premessa si è aperto l’intervento di Lucio Poma, responsabile scientifico dell’area industria e innovazione di Nomisma, al convegno “Rischi: cultura e capacità di azione” organizzato da Società e Rischio lo scorso 6 giugno.
Poma ha fornito un profilo del sistema economico globale attuale, caratterizzato da un clima di incertezza strutturale. Il paradosso, che diventa però sintomo del pessimismo imperante, è che tutti gli indicatori canonici farebbero pensare ad una condizione complessiva di crescita, più o meno accentuata: i rilevamenti dei Pil al primo trimestre 2019 delle principali economie sono positivi, il settore petrolifero vive una condizione di produzione inferiore alle richieste ma con il prezzo che scende invece di aumentare, come sarebbe da attendersi. In realtà l’attesa per i trimestri futuri è assolutamente negativa.
Legati al destino di Usa e Cina
Punto centrale della questione è la guerra dei dazi tra Usa e Cina, che se nella prima fase era limitata ai settori tecnologici si è oggi allargata a tutte le tipologie di merci. Poma fa notare che la politica dei dazi può determinare l’effetto atteso se è limitata nel tempo, mentre il protrarsi delle limitazioni commerciali dà luogo nel medio periodo ad un riallineamento delle economie interessate su un equilibrio diverso: se non è possibile accedere ad un determinato prodotto, il paese interessato si organizza per trovare delle alternative, e non è detto che una volta riaperte le frontiere si torni alla situazione commerciale di partenza. Senza contare gli effetti di “rappresaglia” messi in atto dal paese vittima di dazi: i cinesi sono i primi creditori dei bond statunitensi, ma nelle ultime due aste hanno mostrato poco interesse tanto che non sono andate pienamente sottoscritte. La vera ragione del contendere per Poma è da cercare nella battaglia tecnologica su semiconduttori e Tlc, in cui la Cina vuole inserirsi in contrapposizione al binomio monopolistico Usa-Corea. L’Europa, vaso di coccio tra le due superpotenze, ha sottoscritto già una quarantina di contratti sul 5G con imprese del colosso orientale.
In sinesi, si assiste ad un passo indietro nella globalizzazione, con gli investimenti cinesi in Europa e America che sono diminuiti del 73% nel corso del 2018 e investimenti transfrontalieri di società multinazionali calati del 20% nello stesso periodo.
Italia: chi non guadagna non compra
In questo contesto mondiale di incertezza si inserisce una situazione italiana di sostanziale stallo, in cui il clima di fiducia delle imprese e dei consumatori è in calo per la prima volta dal 2016 e i consumi non ripartono. La prima ragione per Poma è da ricercare nell’occupazione e nella politica salariale: secondo un rapporto dell’European Trade Union Confederation, dal 2009 al 2018 i salari reali medi sono diminuiti dell’1% in Italia, a fronte di un aumento dell’11% in Germania e del 7% in Francia.
L’occupazione sta ripartendo ma non abbastanza, e non nel modo che converrebbe: il tasso di occupazione è salito al 58,9% nel nostro paese, ma resta ancora molto basso rispetto al 65,5% della Francia e al 76,3% della Germania (media OCSE 68,6%). Si tratta di un aumento di posti di lavoro per lo più con contratti a tempo determinato (nonostante il Decreto Dignità), con gli indeterminati che perdono quote percentuali pur restando la componente prioritaria nel paese. Inoltre si assiste ad un aumento dell’occupazione tra gli over 50 (ma con soluzioni di lavoro temporaneo e di scarsa qualità), mentre il nucleo forte dei 34-49enni sta risentendo della una fase di ristrutturazione generale. Ciò che maggiormente impatta sui consumi italiani è proprio nella differenza tra le due tipologie di contratto in termini di reddito, che vede la componente precauzionale dei “determinati” superiore a quella degli “indeterminati”, con la conseguenza di un comportamento al consumo necessariamente più conservativo in quanto non sostenuto dalla certezza di entrate continuative.