Il Jobs act lentamente smontato
L’11 febbraio scorso il Comitato europeo dei diritti sociali ha pubblicato la sua decisione su un ricorso presentato nel 2017 dalla Cgil. Il sindacato italiano più rappresentativo aveva contestato la non conformità di alcune disposizioni del dlgs 23/2015 (uno dei decreti implementativi del Jobs act) noto per aver introdotto il cosiddetto contratto a tutele crescenti. Con il contratto a tutele crescenti è stato di fatto superato lo storico meccanismo della reintegrazione previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: fatte salve alcune ipotesi più gravi quali il licenziamento discriminatorio o ritorsivo, a seguito di un licenziamento illegittimo il lavoratore avrebbe avuto diritto solo a un indennizzo pari a due mensilità di retribuzione per ogni anno di anzianità aziendale (nella sua iniziale formulazione, con un minimo di quattro e un massimo di 24 mensilità).
La modifica del Decreto Dignità e della Corte Costituzionale
La nuova previsione normativa veniva già modificata dal cosiddetto Decreto Dignità, uno dei primi provvedimenti del governo giallo-verde nel 2018: la misura dell’indennizzo minimo passava da quattro a sei mensilità mentre il massimo da 24 a 36 mensilità. L’impianto sostanziale della norma (indennizzo con meccanismo automatico legato all’anzianità) rimaneva, peraltro, invariato.
Ben più significativo intervento veniva dalla Corte Costituzionale che, con la nota sentenza 194/2018, dichiarava l’incostituzionalità delle norme del dlgs 23/2015 nella parte in cui prevedevano che l’indennizzo, in caso di licenziamento illegittimo, dovesse essere ancorato alla sola anzianità di servizio. Tra le altre cose, la Corte rilevava che la quantificazione rigida, forfettizzata e standardizzata dell’indennizzo in contrasto con il principio di equità in quanto il pregiudizio conseguente a un licenziamento illegittimo è necessariamente determinato da una pluralità di fattori e non solo, quindi, dall’anzianità di servizio. La Corte concludeva che non è costituzionalmente legittimo limitare i criteri di valutazione a un meccanismo rigido e predeterminato: è il giudice che, nell’esercizio della sua discrezionalità, deve calibrare l’indennizzo alla situazione di fatto e, quindi, all’effettivo danno subito dal lavoratore illegittimamente licenziato, comunque entro le soglie minime e massime (sei-36 mensilità) individuate dal legislatore. La Corte indicava al giudice i criteri utili a tale valutazione: sì l’anzianità aziendale ma anche le dimensioni dell’azienda, il numero dei lavoratori impiegati, il comportamento delle parti, la loro situazione personale.
È interessante notare che già i giudici costituzionali rilevavano il contrasto non solo alla normativa italiana ma anche a quella dell’Unione e, in particolare, proprio all’articolo 24 della Carta sociale europea.
La norma comunitaria prevede che per assicurare l’esercizio del diritto a una tutela effettiva in caso di licenziamento illegittimo, gli Stati contraenti si impegnano a riconoscere “il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, a un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”. È questa la norma che il Comitato dei diritti sociali ha ritenuto violata dalla normativa italiana.
Cosa cambia con il ricorso di Cgil
Il ricorso che la Cgil ha sottoposto alla valutazione del Comitato contestava la normativa del Jobs act sotto alcuni profili: in particolare, il meccanismo rigido e automatico di determinazione dell’indennità; la fissazione di un tetto massimo dell’indennizzo senza possibilità di reintegrazione e in assenza di altri rimedi, alternativi o complementari, che consentissero un risarcimento pieno ed effettivo del pregiudizio subito dal lavoratore ingiustamente licenziato.
Il Comitato ha ritenuto, correttamente, che alla luce della sentenza della Corte Costituzionale sopra richiamata, la prima contestazione doveva ritenersi superata e non più pertinente mentre ha accolto la seconda richiamando l’orientamento consolidatosi in vicende simili relative a normative di altri Paesi aderenti (Finlandia, Bulgaria): i meccanismi di indennizzo conseguenti al licenziamento illegittimo sono conformi alla Carta sociale dei diritti se prevedono: (i) il ristoro delle perdite economiche subite dal lavoratore tra la data del licenziamento a quello della decisione giudiziale; (ii) la possibilità della reintegrazione; (iii) un livello di indennizzo sufficientemente alto da scoraggiare comportamenti illegittimi dei datori di lavoro e tale da rendere pieno il risarcimento dei danni effettivamente subiti dai lavoratori.
Sulla base di tale orientamento, il Comitato ha ritenuto che le norme del dlgs. 23/2015 violano l’articolo 24 della Carta sociale europea in quanto non prevedono il diritto alla reintegrazione né a rimedi che consentano ai lavoratori di ottenere il risarcimento dei danni effettivamente subiti dal licenziamento illegittimo (neanche attraverso ordinari rimedi risarcitori); esse non costituiscono, quindi, un efficace deterrente contro comportamenti strumentali e illegittimi del datore di lavoro.
Quali saranno gli effetti della decisione? Dal punto di vista prettamente formale, si può escludere che essa costituisca una interpretazione direttamente applicabile nel nostro ordinamento. Secondo l’orientamento della Corte Costituzionale, confermato proprio dalla sentenza 194/2018, se le disposizioni della Carta sociale europea assumono forza di legge (in forza dell’articolo 117 della Costituzione) non altrettanta autorità vincolante può attribuirsi alle decisioni del Comitato che costituiscono solo parametri interpretativi non direttamente applicabili. Non può, però, escludersi che le argomentazioni del Comitato possano orientare l’attività che i tribunali nazionali saranno chiamati a svolgere nella valutazione dei casi concreti soprattutto con riferimento a quella discrezionalità nella quantificazione dell’indennizzo che la stessa Corte Costituzionale ha attribuito ai giudici. Con ciò, probabilmente, indirizzando tali indennizzi nella fascia alta della forbice (sei-36 mensilità) prevista dalla legge.
Il tutto con buona pace della certezza del diritto che era uno degli obiettivi originari del Jobs act.