Turchia, una protagonista con l’economia che arranca
Se da un lato la Turchia di Recep Tayyp Erdoğan si sta imponendo come uno dei principali protagonisti delle dinamiche geopolitiche degli ultimi anni, dall’altro la sua economia sta attraversando diverse criticità. A partire dalla forte svalutazione della lira turca, che da gennaio a inizio novembre ha perso il 30% rispetto al dollaro, e che rappresenta una delle principali vulnerabilità per lo sviluppo del paese. Il mantenimento di tassi di interesse bassi nel corso dell’ultimo anno e mezzo non ha giovato alla valuta nazionale e ha di fatto accresciuto l’inflazione, attualmente quasi al 12%. A poco o nulla è servito il lieve rialzo operato a settembre che pure era stato salutato con favore dagli investitori internazionali e non aveva ricevuto critiche da Erdoğan, acceso sostenitore di una politica di tassi bassi per stimolare la crescita. Se da un lato il presidente ribadisce la sua “determinazione a ridurre il tasso di inflazione a una cifra”, la realtà quotidiana della economia turca è caratterizzata da un vertiginoso e prolungato aumento dei prezzi.
L’impatto sui consumi
Esemplificativo, in questo contesto è la stagnazione del consumo di carne. Non ci sono ragioni dietetiche, ambientali o etiche alla base di questa stagnazione, ma le difficoltà economiche incontrate da una quota crescente di famiglie: dal 2007, il prezzo medio del pollame è aumentato del 238% e quello della carne bovina del 290%. In Turchia mangiare carne è diventato infatti un lusso riservato ormai a una piccola parte della popolazione. Questa situazione è il risultato dell’apertura per diversi anni dell’agricoltura nazionale al mercato internazionale e dell’utilizzo delle importazioni come variabile di aggiustamento in tempi di crisi. Sia sufficiente riflettere sull’origine dei prodotti alimentari che arrivavano sui banchi di fruttivendoli, macellai e altri droghieri: grano e mais importati dalla Russia, riso dagli Stati Uniti, fagioli secchi e ceci dall’India, Messico o Canada, carne rossa dalla Francia, dalla Polonia o dalla Bosnia-Erzegovina. Una situazione preoccupante per la sovranità alimentare del Paese nel medio e lungo termine, ma anche un grosso tassello per un governo che vuole manifestare, attraverso il suo presunto potere agroalimentare, la sua influenza politica.
Secondo Valeria Talbot, analista dell’Ispi, di fronte alla caduta libera della lira e al crescente malcontento nel Paese e soprattutto all’interno del suo partito, “il presidente sembra aver percepito il segnale d’allarme”. In questo senso è stata infatti interpretata dai mercati finanziari la mossa del leader turco di sostituire il governatore della Banca centrale turca, Murat Uysal, consapevole che l’andamento dell’economia costituisce il termometro più attendibile per misurare il consenso politico nei suoi confronti. Se la sostenuta crescita economica è stata a lungo l’asset principale del successo dell’Akp, “Erdoğan infatti sa bene che il deterioramento dell’economia potrebbe costare caro alla tenuta politica del suo partito, affetto da un calo di consensi e da divisioni interne”, afferma Talbot. La formazione di nuovi partiti da parte di figure di primo piano fuoriuscite dall’Akp, come l’ex ministro delle Finanze, Ali Babacan, “potrebbe sottrarre membri e voti all’attuale partito di governo”.
La rimozione del governatore della banca centrale turca
Come accennato la decisione di Erdoğan di rimuovere il governatore della Banca centrale e di sostituirlo con l’ex ministro delle Finanze, Naci Ağbal, lo scorso 9 novembre, “ha innescato un inatteso terremoto ai vertici dell’economia del Paese. Non solo perché Uysal, in carica da sedici mesi, si era allineato molto di più del suo predecessore alle direttive del presidente, di fatto sempre più presente nella gestione della politica monetaria della Turchia. Ma anche perché la sostituzione del governatore è stata seguita dalle dimissioni del ministro delle Finanze Berat Albayrak, genero di Erdoğan di cui fino a quel momento era considerato il delfino”.
Nell’annuncio postato sui social Albayrak aveva addotto non precisati motivi di salute, ma sono in molti a sostenere che le ragioni delle dimissioni siano da ricercare altrove. “Sembra infatti – spiega Talbot – che tra l’ex ministro e il nuovo governatore non corra buon sangue e che quest’ultimo sia all’interno del Partito Giustizia e Sviluppo (Akp) una delle voci più critiche nei confronti della gestione dell’economia da parte di Albayrak negli oltre due anni di mandato. Se quest’ultimo ha di fatto ereditato una situazione economica difficile, le politiche messe in atto per fare uscire il Paese dalla crisi valutaria dell’estate del 2018 e dalla recessione che ne è seguita si sono dimostrate del tutto inefficaci”.