Lavoro, alle prese con la crisi demografica
Il fenomeno dell’invecchiamento generalizzato della popolazione in Italia non è più una semplice questione da aule universitarie ed esperti della materia. Gli effetti dell’attuale andamento demografico, caratterizzato da bassa natalità e allungamento della speranza di vita, stanno diventando ben visibili in numerosi ambiti della nostra vita quotidiana. A cominciare da un tessuto economico e produttivo in cui, come ben sintetizzato in un recente rapporto realizzato da Censis e Confcooperative, “il lavoro c’è, mancano i lavoratori”. E in cui, di conseguenza, le imprese fanno fatica a trovare tutto il personale di cui avrebbero bisogno. Il risultato è un potenziale inespresso che il rapporto, eloquentemente intitolato Lavoro, il mercato contorto, arriva a quantificare per il 2023 in 28 miliardi di euro, praticamente l’1,5% del Pil. “Il lavoro continua a esserci, ma i lavoratori continuano a mancare, e ciò non consente alle imprese di spingere sull’acceleratore come potrebbero”, ha commentato Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative. “Il Pil del 2023 – ha aggiunto – avrebbe potuto raggiungere 1.810 miliardi di euro se tutte le imprese fossero riuscite a trovare tutte le figure professionali di cui hanno bisogno”.
Secondo il rapporto, nel 2023 sono mancati 316mila lavoratori. Pesa il disallineamento fra domanda e offerta di lavoro, così come gli effetti di quella great resignation che ormai, nella nuova normalità del post coronavirus, è diventata una realtà pure in Italia. Ma poi anche (e soprattutto) le conseguenze di una dinamica demografica che negli ultimi anni ha visto fortemente ridursi la quota di giovani lavoratori. Il rapporto, a tal proposito, evidenzia che fra 2012 e 2022 il numero di occupati di età compresa fra 15 e 34 anni è calato del 6,5%. In valori assoluti fanno 361mila lavoratori in meno, praticamente tutti quelli che sarebbero stati necessari per consentire al sistema economico e produttivo di esprimere pienamente il proprio potenziale.
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Pochi, precari e Neet
Secondo una recente indagine dell’Istat, l’Italia è il paese dell’Unione Europea con la più bassa incidenza di giovani sul totale della popolazione (17,5% nel 2021, contro una media continentale del 19,6%). Negli ultimi vent’anni si sono persi più di tre milioni di giovani di età compresa fra 18 e 34 anni. E si è innescata una dinamica da inverno demografico, in cui la popolazione cresce ma i giovani diminuiscono. Le nuove generazioni si fanno dunque sempre più sottili. Ed è probabile che in futuro lo siano ancora di più, visto che solo raramente si trovano nelle condizioni di raggiungere quell’indipendenza economica che può consentire loro di abbandonare la casa dei genitori, costruire una famiglia e fare figli. La disoccupazione giovanile in Italia, secondo l’Ocse, si attesta al 21,3%, vicinissima a quel 27,4% con cui la Spagna guida questa triste classifica. Ancora più preoccupante poi il dato su quei 1,7 milioni di giovani che in Italia compongono la schiera dei Neet: non lavorano, non studiano e non seguono corsi di formazione. Peggio di noi, in Europa, soltanto la Romania.
Sempre il Censis, in un rapporto realizzato insieme a Eudaimon, arriva ad affermare che “i giovani occupati sono diventati una rarità”: negli ultimi dieci anni sono diminuiti del 7,6%. Insomma, ci sono sempre meno giovani lavoratori. E, quando presenti, si trovano spesso a lavorare con forme contrattuali non standard, come collaborazioni, tempo determinato e part-time involontario: il fenomeno della precarietà, secondo i risultati del rapporto, tocca il 39,3% degli occupati di età compresa fra 15 e 34 anni.
Donne e precarietà
Essere giovani oggi in Italia, come visto, può dunque essere molto difficile. E può rivelarsi estremamente complicato per chi si trova a essere contemporaneamente giovane e donna. “La precarietà è giovane e donna”, sentenzia il rapporto di Censis ed Eudaimon. La ricerca, a tal proposito, evidenzia che il 46,3% delle giovani lavoratrici è assunto con contratti atipici, contro il 34,2% dei maschi.
Il coinvolgimento delle donne nel mercato del lavoro in Italia resta ancora particolarmente limitato. Il tasso di occupazione femminile nell’ultimo anno è aumentato dell’1,2%, attestandosi a quota 52,6%. Bene, ma non benissimo, visto che il dato resta 13,8 punti sotto la media europea registrata da Eurostat nel 2022 e comunque 8,2 punti percentuali in meno rispetto alla controparte maschile. A pesare, stando a una ricerca dell’Istat, sono soprattutto la mancanza di strumenti di conciliazione fra vita e lavoro e lo squilibrio nell’assegnazione dei compiti familiari: lavora l’81,3% delle donne che vivono da sole, il 76,2% di quelle che vivono in coppie senza figli e soltanto il 60,2% delle madri.
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L’altra metà del cielo
E pensare che un maggior coinvolgimento delle donne nel mercato del lavoro potrebbe avere numerosi effetti positivi. Innanzitutto, potrebbe contribuire ad aumentare la produttività e, di conseguenza, le risorse da destinare al sostentamento del welfare state e alla promozione di investimenti in innovazione, ricerca, sviluppo e politiche attive del lavoro. “Dobbiamo lavorare ancora molto sulle disuguaglianze nel mercato del lavoro e sull’occupazione femminile”, ha affermato Marina Calderone, ministro del Lavoro e delle Politiche sociali nell’ambito di un convegno tenutosi alla Camera dei Deputati. “La strategia di Lisbona – ha aggiunto – fissa al 60% l’obiettivo dell’occupazione femminile: se l’avessimo già raggiunto, avremmo avuto un incremento del 7% del Pil”.
In seconda battuta, le donne che lavorano tendono anche a fare più figli e dunque a contribuire maggiormente all’inversione di quel trend demografico che ha portato negli ultimi anni a un forte calo del numero di giovani. Lo certifica una recente ricerca di Save the Children Italia, intitolata Le equilibriste – La maternità in Italia 2023. “La condizione lavorativa delle donne, e in particolare delle madri, nel nostro paese è ancora ampiamente caratterizzata da instabilità e precarietà, a cui si aggiungono la carenza strutturale di servizi per l’infanzia, a partire dalla rete di asili nido sul territorio, e la mancanza di politiche per la promozione dell’equità nel carico di cura familiare”, ha commentato Antonella Inverno, responsabile Politiche Infanzia e Adolescenza di Save the Children Italia. “Sappiamo – ha proseguito – che dove le donne lavorano di più nascono anche più bambini, con un legame tra maggiore fecondità e posizione lavorativa stabile di entrambi i partner”.
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Il contributo dell’immigrazione
Parlare di lavoro e demografia significa inevitabilmente parlare anche di immigrazione. E, più nel dettaglio, del contributo che adeguati flussi migratori possono garantire in termini di produttività e natalità. Secondo l’ultima edizione del rapporto curato dalla Fondazione Leone Moressa, gli immigrati in Italia hanno generato un valore aggiunto di 154,3 miliardi di euro, pari al 9% del Pil. I lavoratori stranieri, su una popolazione complessiva di cinque milioni di persone, ammontano a 2,4 milioni e risultano impiegati principalmente in occupazioni manuali, soprattutto nei comparti dell’agricoltura e dell’edilizia. Bene anche il contributo demografico, con un saldo di 11 nati ogni mille abitanti che risulta decisamente più elevato rispetto ai 6,3 nati della popolazione italiana.
I flussi migratori stanno dunque contribuendo ad arginare un trend demografico ed economico che nei prossimi anni potrà rivelarsi ancor più sfavorevole. Nel 2043, stando a una ricerca della Fondazione Di Vittorio, la popolazione in età da lavoro in Italia sarà inferiore di 6,9 milioni di persone. I flussi attuali potrebbero non essere sufficienti per compensare il calo. Per contrastare il fenomeno, secondo la ricerca, il saldo migratorio dovrebbe aumentare di 150mila ingressi all’anno.