Bitcoin, il mining consuma più energia dell’Ohio
La produzione di bitcoin, il cosiddetto mining, richiede più energia elettrica di uno stato come l’Ohio. È con queste parole che Arvind Narayanan, ricercatore dell’università di Princeton ed esperto di computer science, ha lanciato l’allarme nel corso di un’audizione al Senato degli Stati Uniti sul consumo di energia imputabile alla produzione di monete virtuali. Detto in altri termini, per estrarre bitcoin serve l’1% dell’energia elettrica prodotta a livello globale.
La questione è nota e dibattuta da tempo: a febbraio la Hs Orka, l’azienda energetica islandese, aveva parlato di un possibile black out dell’isola se venissero realizzati tutti i progetti di installazione di computer per il bitcoin mining. “L’Islanda non avrebbe più energia sufficiente”, aveva ammonito il portavoce della società. Altri casi di black out si erano verificati in Venezuela, divenuta patria di elezione per le monete virtuali dopo la progressiva svalutazione del bolivar.
Alla base dei sempre più energivori bitcoin, c’è il loro peculiare sistema di produzione. Si tratta di una sorta di gara, in cui diversi miners si sfidano per risolvere nel più breve tempo possibile una serie di algortimi che diventano progressivamente più complessi: il primo che finisce si prende tutto, ossia un bitcoin. Ecco perché la potenza di calcolo ed elaborazione dei computer diventa fondamentale. E, allo stesso tempo, aumenta il livello di energia necessaria per l’attività di mining.
Secondo Narayanan, l’andamento dei consumi dipenderà soprattutto dal prezzo dei bitcoin: se aumenta, crescerà anche la produzione e, di conseguenza, anche la domanda di energia elettrica. Secondo alcune ricerche, dopo il ribasso che ha caratterizzato l’asset nell’ultimo anno, alla fine del 2018 il mercato potrà assistere a un nuovo rialzo delle monete virtuali.