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Brexit, Deal o No-Deal: questo è il problema

Il rinvio dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea non risolve le questioni aperte dal referendum del 2016: il rischio di un addio senza accordo diventa sempre più concreto
Ancora una volta la scadenza prevista per il definitivo divorzio del Regno Unito dall’Unione Europea è stata rinviata: il Consiglio europeo, all’esito delle trattative tenutesi il 10 aprile scorso, ha infatti concesso al primo ministro britannico Theresa May un’ulteriore proroga – sino al 31 ottobre 2019 – per convincere la House of Commons ad approvare l’accordo di recesso siglato con i partner europei.
Si tratta di quello che viene definito un “rinvio flessibile”: qualora infatti l’accordo di recesso venisse ratificato prima del 31 ottobre 2019, l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea avrebbe luogo a partire dal primo giorno del mese immediatamente successivo.
Il Consiglio europeo ha però precisato che la proroga non dovrà compromettere il regolare funzionamento delle istituzioni dell'Unione Europea, soprattutto in un momento delicato come quello delle elezioni per il Parlamento europeo. In particolare, nel caso di mancata ratifica dell’accordo di recesso entro il 22 maggio 2019, il Regno Unito dovrà organizzare le elezioni per il Parlamento europeo sulla base del diritto dell'Unione. In caso contrario, il recesso avrà luogo il 1° giugno 2019.
L’allungarsi dei tempi non va certo nel senso di un cambiamento di rotta del Regno Unito. Rimane così l’interrogativo sul che cosa accadrà in caso di recesso con accordo e, invece, in caso di mancato accordo, soprattutto con riguardo alla libera circolazione delle persone ed ai diritti dei lavoratori.

Verso un’uscita ordinata?
L’accordo di recesso prevede misure transitorie applicabili sino al 31 dicembre 2020, che dovrebbero consentire al Regno Unito e all’Unione Europea di raggiungere un successivo accordo che disciplini i reciproci rapporti.
Durante il periodo transitorio il Regno Unito non farebbe più parte dell’Unione, e non sarebbe più rappresentato negli organi e nelle istituzioni comunitarie. Non parteciperebbe, pertanto, al processo decisionale europeo. Tuttavia:

(i)    continuerebbe a partecipare all’unione doganale, al mercato unico – con applicazione di tutte e quattro le libertà, tra cui la libertà di circolazione delle persone – e a tutte le politiche dell’Unione Europea;
(ii)    e continuerebbe ad applicare integralmente il diritto dell’Unione Europea.

Se pertanto Theresa May riuscisse a raccogliere un sufficiente consenso sulle intese raggiunte con Bruxelles, i cittadini europei residenti nel Regno Unito e i cittadini britannici residenti nell'Unione Europea potrebbero continuare a esercitare tutti i diritti attualmente garantiti dalle normative europee, sulla base dei principi di parità di trattamento e di non discriminazione. I tribunali britannici, inoltre, dovrebbero assumere come riferimento le sentenze della Corte di giustizia europea.

Il nodo della backstop clause
Un protocollo allegato all’accordo di recesso contiene la cosiddetta backstop clause, con la quale si vorrebbe evitare la ricostituzione di un confine fisico tra Irlanda e Irlanda del Nord. Secondo il protocollo, alla fine del periodo transitorio verrebbe creata un'area doganale comune (single custom territory) per tutto il territorio della Unione Europea e del Regno Unito, in cui all'Irlanda del Nord verrebbe applicato il codice doganale comunitario in modo integrale, mentre al Regno Unito si applicherebbe solo un più limitato numero delle sue disposizioni.
La House of Commons, però, ha già respinto per ben tre volte il testo dell’accordo di recesso, ma ha pure rigettato la possibilità di recedere senza accordo dall’Unione Europea.

In caso di no deal
Come uscirà dall’impasse non è dato di prevedere.
Sia il Governo britannico che le istituzioni europee hanno comunque ben presenti i rischi connessi ad un’uscita eccessivamente disordinata del Regno Unito dall’Unione Europea.
La Commissione europea, in due momenti successivi – il 13 novembre e il 19 dicembre 2018 – ha presentato un “piano d’azione per ogni evenienza” contenente alcune proposte legislative, nonché indicazioni rivolte agli Stati membri sulle misure da predisporre in caso di no-deal Brexit.
Un recesso senza accordo implicherebbe anzitutto la fine della libertà di circolazione delle persone, con conseguente impossibilità per i cittadini comunitari e i cittadini del Regno Unito di trasferirsi, vivere e lavorare al di qua ed al di là delle frontiere senza un regolare permesso.
Quanto ai cittadini del Regno Unito che si recheranno nell’Unione Europea:

•    per i soggiorni fino a 90 giorni nell’arco di un semestre, la Commissione europea ha adottato una proposta di regolamento che li esonererebbe dall’obbligo del visto, a condizione che anche il Regno Unito riconoscesse un’analoga esenzione ai cittadini dell'Unione;
•    per soggiorni superiori ai 90 giorni, dovrebbero ottenere dalle autorità nazionali competenti un permesso di soggiorno o un visto di soggiorno di lunga durata;
•    a coloro che potranno vantare un soggiorno legale di almeno cinque anni in uno Stato membro dovrebbe essere conferito lo status di soggiornante di lungo periodo secondo quanto previsto dalla normativa europea. A tal fine, varranno i periodi trascorsi in uno degli Stati membri prima della data di recesso.

La Commissione ha anche invitato gli Stati membri – a condizione che provvedimenti reciproci siano presi dal Regno Unito – ad adottare misure affinché i cittadini del Regno Unito che risiedano nell'UE alla data del recesso continuino ad essere considerati residenti legalmente.

Gli Stati al riparo
Da parte italiana, “sono in preparazione misure legislative per un sostanziale mantenimento del quadro giuridico esistente per garantire che i cittadini britannici residenti al 29 marzo 2019 (la data originariamente prevista per il recesso, ndr] in Italia avranno riconosciuti i requisiti e il tempo necessario per chiedere e ottenere lo status di soggiornante di lungo periodo disciplinato dalla Direttiva 2003/109/CE. In questo modo, essi potranno continuare a godere di diritti quali l’accesso a cure mediche, occupazione, istruzione, prestazioni sociali e ricongiungimento familiare”.
Quanto ai cittadini europei che si recheranno nel Regno Unito, il 6 dicembre 2018 il governo britannico ha pubblicato un documento d’indirizzo (policy paper) in cui ha precisato che in assenza di un accordo:

•    verranno mantenuti e garantiti tutti i diritti acquisiti da parte di coloro che risultino continuativamente residenti nel Regno Unito da almeno cinque anni alla data del recesso (settled status). La tutela di tali diritti sarà però demandata ai soli tribunali britannici;
    coloro che alla data del recesso risultino essere residenti nel Regno Unito da meno di cinque anni potranno richiedere il cosiddetto pre-settled status, un permesso temporaneo concesso in attesa di maturare i requisiti per ottenere quello permanente;
    a quanti giungeranno nel Regno Unito dopo il recesso verrà riservato un diverso trattamento, basato sulla legislazione nazionale britannica in materia di immigrazione e su principi di reciprocità con la situazione dei cittadini britannici residenti nei Paesi di provenienza degli interessati.

In materia di lavoro, il 12 luglio 2018 il governo britannico ha pubblicato un white paper contenente una proposta dettagliata sulle relazioni post-Brexit tra il Regno Unito e l’Unione Europea. Il governo britannico ha dichiarato di voler mantenere l’attuale legislazione lavoristica di derivazione europea che interessa un certo numero di istituti tra i quali il contratto di agenzia commerciale, l’orario di lavoro, le ferie, i congedi parentali, i contratti a tempo determinato e il lavoro part time.

Dopo il recesso, però, il Regno Unito non avrà più alcun obbligo di adeguarsi alla successiva legislazione europea, il che, in una prospettiva di lungo periodo, potrebbe tradursi in minori diritti per i lavoratori britannici.