“Educare” (alla previdenza complementare) è meglio che “curare”
Il tema della previdenza è probabilmente l’argomento che da sempre riempie pagine e pagine dei quotidiani nazionali e arringa maggiormente i salotti dei talk show televisivi. E l’ultimo decennio non ha fatto di certo eccezione, anzi. Complice sicuramente l’elevato turn over alla guida del Paese, sono state numerose le riforme (o come tali annunciate) che hanno o avrebbero dovuto impattare sulla previdenza pubblica nazionale, sia restringendo sia allargando i requisiti tecnici per il pensionamento.
Se dunque il tema della pensione pubblica (primo pilastro) è utilizzato molto spesso come bandiera per alimentare il perenne clima di campagna elettorale in cui viviamo, il secondo pilastro, ovvero la previdenza complementare, si è fatta strada quasi da sola tra una programmazione politica miope e disinteressata. Al contrario, in un momento in cui si sente parlare di previdenza complementare pubblica (evidentemente, una contraddizione alla fonte), c’è bisogno di uno sguardo coraggioso e proiettato nel lungo periodo, e soprattutto di iniziative concrete per educare alla previdenza integrativa i più giovani, che guardano alla quiescenza come un momento molto lontano e infinitamente procrastinabile.
L’importanza della previdenza complementare
La razionalizzazione della previdenza complementare in Italia è avvenuta relativamente tardi se si guarda al confronto con altri Paesi che da molto più tempo vantano un secondo pilastro solido e ben sviluppato. Con le dovute differenze nel funzionamento dei vari sistemi di welfare e, dunque, nelle specificità del ruolo che assolve la previdenza integrativa in ciascuna nazione, in Italia l’ultimo vero e strutturale intervento corrisponde al D.lgs. n. 252/2005 che, tra le altre cose, ha dato un importante contributo al settore, introducendo la possibilità di scegliere se lasciare in azienda il proprio TFR o destinarlo alle forme di previdenza integrativa. Dopo, solo un silenzio assordante.
Osservando però i numeri ci si accorge che anche nel 2018 è proseguito il trend di crescita delle adesioni, arrivando a contare oltre 8,5 milioni di iscritti tra fondi pensione negoziali, preesistenti, aperti e PIP. Nonostante una quota di questi non versi i contributi, gli iscritti ai fondi pensione sono il 37% circa del potenziale dei lavoratori attivi (più di 23 milioni). Considerando in particolar modo i fondi negoziali, ovvero quelli ad adesione collettiva, a fine 2018 si contano oltre 3 milioni di lavoratori. La loro particolarità sta nel fatto che nascono appunto dalla contrattazione bilaterale tra rappresentanze datoriali e dei lavoratori. Ciò significa che il lavoratore ha la possibilità di iscriversi, in base al proprio CCNL, a uno specifico fondo pensione indicato dalla propria categoria di appartenenza. Tale bilateralità ha dimostrato di saper dar vita a uno strumento estremamente trasparente, con governance solide ed efficiente gestione finanziaria, caratteristiche che contribuiscono a evidenziare l’importanza nel dotarsi di una pensione integrativa rispetto a quella pubblica.
In generale, a prescindere dalla forma di previdenza complementare scelta (contrattuale, fondo aperto o PIP), il fondo pensione è quindi uno strumento che è bene cominciare ad alimentare sin da giovani, per avere a disposizione, al momento del ritiro dal mondo del lavoro, una prestazione integrativa che consenta al pensionato di avere un tasso di sostituzione (rapporto tra l’ultima retribuzione e la prima rata pensionistica) tale da mantenere quasi inalterato il suo tenore di vita.
Risparmio e fondo pensione: un binomio vincente
Oltre alla funzione prettamente previdenziale che i fondi pensione assolvono c’è un’ulteriore caratteristica che rende la previdenza complementare un settore estremamente importante e che necessita di essere incentivato. Se è vero che da sempre il risparmio delle famiglie italiane rappresenta un asset importante per il nostro Paese, è altrettanto vero che l’offerta di prodotti finanziari dell’industria del risparmio gestito è estremamente ampia e non sempre di facile comprensione per il risparmiatore medio.
Allo stesso modo vi sono numerose variabili che caratterizzano l’ottimale allocazione del proprio risparmio: la propria propensione al rischio, l’orizzonte temporale di investimento e il capitale investibile, oltre al livello di educazione finanziaria del singolo risparmiatore. Se la comprovata carenza di conoscenze finanziarie del risparmiatore medio porta invece molto spesso a prendere decisioni di investimento distanti da quelle ottimali, destinare il proprio risparmio alla previdenza complementare può rappresentare una soluzione efficiente per varie ragioni: 1) l’incentivo fiscale, che consente l’intera deducibilità dei contributi versati fino a un massimo annuo di 5.164,57 euro, nonché di vedere applicata un’imposta sostitutiva del 20% su interessi e plusvalenze realizzate anziché del 26%; 2) investimento progressivo, in quanto la contribuzione alla previdenza complementare, che è tipicamente effettuata durante l’intera vita lavorativa e oltre, consente di accedere a un versamento del risparmio dilazionato nel tempo, eliminando eventuali barriere di size di ingresso; 3) rischiosità contenuta, poiché le varie linee di investimento presenti all’interno dei fondi pensione consentono di soddisfare la personale propensione al rischio, e in alcuni casi, tenere in conto l’età di ingresso e di permanenza attraverso profili così detti di lifecycle; 4) contributo datoriale, nel caso menzionato di adesione a un fondo pensione negoziale il lavoratore beneficia anche di tale contributo che andrà ad alimentare il montante finale; 5) il costo, infatti il fondo pensione è uno strumento mediamente meno costoso, in quanto l’ISC (Indicatore Sintetico dei Costi) delle forme di previdenza complementare testimonia un costo molto contenuto e ciò impatta positivamente sul risultato finanziario finale di lungo periodo.
“Educare” è meglio che “curare”
Dai dati visti si comprende come effettivamente a oggi l’Italia non abbia raggiunto una buona copertura previdenziale integrativa almeno per le adesioni.
In primo luogo perché si registrano ancora livelli considerevoli di interruzioni nella contribuzione al fondo pensione, fattispecie che impatta negativamente sull’ammontare della prestazione finale e risulta comunque ancora scoperta una consistente fetta di lavoratori attivi. In secondo luogo, buona parte delle nuove adesioni arrivano dal cosiddetto meccanismo di adesione contrattuale, attraverso il quale avviene l’iscrizione del lavoratore al fondo pensione, ma la posizione previdenziale è alimentata solamente dal contributo del datore di lavoro, troppo poco per poter bastare. Terzo, le percentuali di adesione alla previdenza complementare dei giovani sono ancora troppo basse, lasciando senza protezione proprio le generazioni che invece ne avranno più bisogno.
Come fare allora per colmare il gap che separa ancora il nostro Paese da quelli con modelli di welfare complementari che riescono a garantire livelli di copertura anche superiori al numero di lavoratori occupati (è possibile iscrivere figli/familiari a carico)? Se la miopia della politica sul tema dimostra che difficilmente saranno prese strade istituzionali in tal senso, non resta che agire sull’informazione e sull’educazione finanziaria anche partendo dalle scuole. Condurre campagne informative e prevedere programmi mirati, soprattutto verso i giovani, è forse l’unica strada per diffondere e cementare quella cultura previdenziale di cui c’è estremamente bisogno. Educare alla previdenza complementare significa fare il bene del Paese, in particolar modo quello di “domani”.