Pantano Italia, solo capitali freschi possono salvarci
L’Italia sembra ripiombare nella recessione. I dati dell’Istat dell’ultima settimana sono impietosi per il nostro Paese, che rischia seriamente di entrare in una fase di avvitamento molto pericolosa, anche considerando le tensioni nel governo che rischiano di acuire il rischio politico e far innalzare la febbre: cioè lo spread. A gennaio, l’indicatore anticipatore dell’Istat ha mantenuto un orientamento negativo anche se con intensità più contenuta rispetto ai mesi precedenti. Nel quarto trimestre 2019, il dato del Pil era stato peggiore delle attese: il calo era stato del 0,3% sul trimestre precedente, la variazione peggiore dal 2013, che si confronta con il +0,1% del terzo trimestre. Le attese degli analisti puntavano anche questa volta su un +0,1% ma non è andata così. Nella nota mensile sull’andamento dell’economia italiana, l’Istituto, preso atto della flessione del quarto trimestre 2019, ha previsto una crescita media per il 2019 allo 0,2%. Le cause sono molteplici. A dicembre, si era registrata una riduzione dell’occupazione, nonostante nel corso del 2019 le condizioni del mercato del lavoro siano migliorate significativamente. A inizio 2020, sia per l’Italia sia per l’area euro, l’inflazione ha mostrato una nuova risalita, ma le prospettive per i prossimi mesi suggeriscono il proseguimento della fase di continenza dei prezzi. Nel mese scorso, la fiducia dei consumatori è salita in contrapposizione al clima di fiducia delle imprese che è invece peggiorato, sebbene per la manifattura si siano evidenziati alcuni segnali di miglioramento.
Una riforma cruciale
L’Italia resta il malato d’Europa e senza riforme importanti non potrà venire fuori da un pantano che affossa la sua crescita da ormai vent’anni, come ha sottolineato anche l’Ocse nel suo recente rapporto sull’Italia. Nonostante questo, secondo l’Istituto con sede a Parigi, l’Italia è una delle grandi economie europee che presenta la percentuale più elevata di aziende a forte crescita (23%). Tuttavia, queste aziende a forte crescita sono ancora troppo poche rispetto al gran numero di piccole imprese caratterizzate da scarsa produttività. In questo contesto si inserisce una riforma, quella del mercato dei capitali, che, sottolinea l’Ocse, è cruciale per il futuro dell’Italia. Un maggiore sviluppo del mercati dei capitali fornirebbe alle aziende le risorse finanziarie per la crescita, consentendo loro di raggiungere dimensioni più concorrenziali.
Capitale + investimenti = crescita
“La prosperità futura delle famiglie italiane – si legge nel rapporto – dipenderà, in misura apprezzabile, dal grado di successo con cui si riuscirà a far confluire i loro risparmi verso investimenti a lungo termine nell’economia reale, in grado di creare ulteriori posti di lavoro e una crescita sostenibile. Imprenditori, aziende e famiglie dovranno, pertanto, avere l’opportunità di trarre vantaggio dai rapidi sviluppi che interessano oggi il mondo della finanza”. Il credito bancario, su cui si reggono le imprese italiane, non basta più: questo è evidente da anni. Ma mancano le alternative, oppure queste sono poco percorribili. L’Italia ha intrapreso riforme strutturali significative, tuttavia i miglioramenti estesi nel tempo in termini di produttività, competitività e crescita, ribadisce Ocse, devono essere sostenuti da ulteriori investimenti nell’economia reale, e gli investimenti presuppongono che le imprese abbiano accesso a capitale a lungo termine.
La Borsa vuota
Nel confronto europeo, è facile vedere cosa non va. Nell’ultimo decennio, meno di quattro aziende all’anno si sono quotate sul mercato di Borsa Italiana e il rapporto percentuale tra capitalizzazione di mercato e Pil registrato in Italia è nettamente inferiore a quello degli altri grandi Paesi europei. Alla fine del 2018, il valore totale delle azioni italiane quotate era pari al 31% del Pil, un dato nettamente inferiore a quello registrato in Germania (46%) e in Francia (88%). Secondo il segretario generale dell’Ocse, Angel Gurría, “la riforma del mercato dei capitali consentirà di sviluppare appieno il potenziale dell’economia italiana, favorendo una crescita sostenibile”. Il 40% dell’attivo delle imprese italiane è finanziato da debiti a breve termine, una percentuale non paragonabile alle altre aziende europee. Questa situazione limita gli investimenti destinati alla crescita e aumenta la vulnerabilità del settore non finanziario a fronte di shock macroeconomici.
Ridurre le incertezze
Per assumere rischi più strategici, (cioè innovare) occorre un’allocazione più efficiente del capitale ma anche un accesso facilitato all’equity azionario e alle obbligazioni societarie di lungo termine. Ne gioverebbero ricerca e sviluppo, ma migliorerebbe anche la produttività del capitale umano e del capitale fisso delle imprese italiane. “Ridurre al minimo i fattori di incertezza di natura economica, sociale e politica – ha chiosato Gurría – permetterà al contempo di trarre il massimo beneficio dalle riforme e di consolidare la fiducia di imprenditori, investitori e famiglie”. Purtroppo, non ci sembra che questi siano tempi in cui l’incertezza economica, sociale e politica possa essere ridotta significativamente e con successo.