I lavoratori italiani temono i robot
Retribuzioni più basse e minori tutele, ma soprattutto paura di perdere il lavoro. Questo il sentiment dei lavoratori italiani in relazione all'attesa nuova ondata tecnologica. Un fenomeno che viene visto, invece, con entusiasmo ed ottimismo dalle aziende, i cui vertici sono convinti che robot, intelligenza artificiale e algoritmi miglioreranno la qualità della vita e del lavoro per tutti. Questo il quadro che emerge dal 3° Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale, presentato nei giorni scorsi a Roma, che ha analizzato lo sviluppo della socialità integrativa nel contesto dell’implementazione delle nuove tecnologie e del digitale.
Ad emergere è soprattutto la tecnodisuguaglianza tra chi lavora in settori ad elevata automazione e chi opera in altri comparti: nel 2017, fatto 100 il salario medio di un lavoratore occupato nel comparto industria e servizi, quello di un dipendente impiegato in settori ad alto e medio impatto tecnologico e ad alto contenuto di conoscenza è pari a 184,1, contro i 93,5 di un lavoratore occupato nelle altre imprese. Numeri che certificano l’esistenza di una tecnopolarizzazione dei salari: una disuguaglianza che taglia in due la popolazione occupata, spinge in avanti chi lavora in settori a più alto contenuto di tecnologia e conoscenza, e lascia indietro gli altri.
Rassegnati a minori tutele e salari più bassi
Crescono dunque le preoccupazioni dei lavoratori: dal rapporto emerge che l’85% è spaventato dagli effetti attesi dalla rivoluzione tecnologica e digitale e che i più spaventati sono gli operati e i lavoratori esecutivi (89,3%). Infatti, per il 48,8% di queste categorie, l'automazione distruggerà posti di lavoro (la quota scende al 35,7% tra dirigenti e direttivi, e al 40,8% tra gli impiegati); secondo il 42,9% si dilateranno i tempi di lavoro (lo pensa il 39,3% di dirigenti e direttivi); per il 42,9% non migliorerà la qualità della vita in azienda (a dirlo è solo il 21,4% di dirigenti e direttivi e il 30,7% degli impiegati) e il 33,3% non crede che i lavori saranno meno rischiosi (il dato scende al 25% tra dirigenti e direttivi, e al 27% tra gli impiegati).
In generale, la maggioranza dei lavoratori italiani è rassegnata ad avere minori tutele (50%) e redditi più bassi (58,3%): una percezione che coinvolge anche apicali (53% dei dirigenti) e intermedi (57% degli impiegati).
Inoltre, per quanto riguarda le relazioni in azienda, il 52,5% dei lavoratori ritiene che in futuro sarà più difficile trovare obiettivi comuni con imprenditori e manager: lo pensa il 58,3% degli operai ed esecutivi, il 51,7% degli impiegati e il 42,9% dei dirigenti e direttivi.
L'entusiasmo delle aziende
Alla paura di operai ed esecutivi si contrappone l'entusiasmo delle imprese: il 97% dei vertici aziendali è convinto che le nuove tecnologie digitali e l’intelligenza artificiale produrranno una migliore qualità del lavoro e della vita dei lavoratori, oltre a potenziare produttività ed efficienza (97,6%) e questa dicotomia di sentiment tra aziende e lavoratori è alla base di un potenziale cortocircuito delle relazioni industriali.
Il welfare arriva in aiuto
In questo nuovo scenario di rischio, emerge un ampio campo di azione per il welfare aziendale che può aiutare a trovare soluzioni condivise di fronte ai rischi di nuove disuguaglianze. Infatti, il 54,4% dei lavoratori pensa che l’attivazione di servizi, benefit e prestazioni di welfare integrativo contribuirà nei prossimi anni a migliorare la qualità della vita lavorativa, il clima aziendale e la soddisfazione dei lavoratori, con percentuali più elevate tra dirigenti (64,3%) e intermedi (56,2%) rispetto ad operai ed esecutivi (45,2%).
Il welfare potrà supportare i lavoratori, di fronte al disorientamento derivante dalla rivoluzione tecnologica, grazie a servizi di coaching per il cambiamento: già oggi, il 66,1% di quelli che beneficiano di questo strumento percepisce un miglioramento della propria qualità di vita: un riconoscimento trasversale ai ruoli svolti in azienda, visto che a dichiararlo è l’89,5% di dirigenti e direttivi, il 60% degli impiegati, il 78,8% di operai ed esecutivi.
Aumenta la conoscenza
Questo apprezzamento è avvalorato dalla crescita del numero dei lavoratori coinvolti, così come del livello di conoscenza di questo strumento: il 52,7% dei contratti prevede misure di welfare aziendale (nel novembre 2018 la quota era pari al 46,1%, +6,6%) e, per quanto riguarda la contrattazione di secondo livello, se nel 2017, il 33% dei contratti prevedeva accordi di welfare aziendale, nel 2018 la percentuale è salita al 38%; inoltre il 22,9% dei lavoratori dichiara di conoscere bene il welfare aziendale (+5,3%), di cui il 39,3% sono dirigenti e direttivi, il 23,9% impiegati e il 14,3% operai ed esecutivi, dimostrando che, anche se è diminuita la confusione tra i lavoratori su questo strumento, restano i gap di conoscenza nella scala aziendale. Aumenta la propensione visto che il 54% è favorevole a trasformare aumenti e premi produttivi in servizi di welfare, anche se, su questa opzione, si incrementa il numero degli indecisi (22% +12,5).
Un quadro normativo certo
Quello che emerge dal rapporto è che il welfare aziendale rappresenta una risorsa importante, anche e soprattutto per attutire l'impatto della rivoluzione tecnologica. Tuttavia, è necessario regolarlo e indirizzarlo: serve un quadro normativo certo, in cui siano definiti i confini del welfare state, ma soprattutto, come ha spiegato Francesco Maietta, responsabile area politiche sociali Censis, il welfare “deve trovare la sua vera anima” definendo i suoi confini reali e “introducendo i servizi di coaching che accompagnino il lavoratore nel cambiamento”. In questo processo vanno coinvolte le parti sociali, finora interessate solo marginalmente nella progettazione e programmazione: queste infatti giocano un ruolo determinante per dare al welfare un profilo e un ruolo preciso, da collocare nel modello di Paese, al fine di potenziarlo e renderlo all’altezza delle sfide che coinvolgono aziende e lavoratori.