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Fonte immagine: Uri Gordon - iStock | Daniel Tadevosyan - iStock

La fabbrica del falso

Le fake news sono ormai diventate un subdolo strumento di manipolazione sociale. Proliferano grazie all’accelerazione della digitalizzazione e alla disintermediazione dell’informazione spinta dai social media, e hanno fatto un salto di livello grazie all’intelligenza artificiale. Il loro obiettivo è confermare i nostri pregiudizi, perciò arginarle non è semplice: servono formazione e conoscenza

C’è stato un tempo in cui venivano chiamate semplicemente bufale. Notizie eclatanti, esagerate. Spesso pesci d’aprile o leggende metropolitane su cui ironizzare. Oggi la voglia di scherzare è passata. Le fake news sono diventate un problema molto serio, al punto da rappresentare una concreta minaccia alla stabilità sociale. La pericolosità della disinformazione creata da questo flusso di notizie false viene presa molto sul serio. Al punto che l’ultima edizione del World Risk Report del World Economic Forum la mette al primo posto nella classifica delle minacce più temute al mondo nell’orizzonte dei prossimi due anni, con particolare riferimento alle tensioni sociali che una diffusione incontrollata di notizie false potrebbe innescare, anche attraverso gli utilizzi manipolatori dell’intelligenza artificiale come quelli realizzabili con la tecnica del deepfake: video totalmente falsi ma apparentemente credibili e reali.


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La conferma dei propri pregiudizi

Per capire in che modo le fake news sono arrivate a rappresentare un rischio sempre più rilevante occorre ripercorrere un fondamentale passaggio della nostra storia recente: quello che parte dall’epoca in cui i media erano l’unico luogo presso il quale le persone prendevano le notizie, e arriva ai non luoghi dell’era dei social network. A tracciare una panoramica di questo fenomeno a Società e Rischio è Francesco Pira, professore associato in Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’università di Messina, autore di diversi saggi sull’argomento (tra cui Fake news, scritto con Raimondo Moncada, edizioni Medinova).
Il passaggio a cui si riferisce Pira inizia con la perdita di fiducia e credibilità dei media tradizionali che ha minato il ruolo degli intermediari culturali, portando a una fase di disintermediazione: “se prima quella di lavorare sulle notizie e offrircele era un’esclusiva dei giornalisti, oggi la disintermediazione spinge verso un approccio diretto”. Secondo Pira, noi riceviamo in genere il 60% dell’approvvigionamento delle notizie attraverso lo smartphone: “molto spesso – dice – sono notizie che ci arrivano attraverso delle parole chiave che noi inseriamo e che l’algoritmo seleziona per noi. Oppure le leggiamo attraverso la messaggeria veloce, cioè gruppi su WhatsApp o Telegram, o direttamente sui social network”. Spesso, per altro, ci si limita a leggere il titolo dell’articolo, senza nemmeno aprire il testo. Questo processo di circolazione dei contenuti, sostiene il professore, ha generato una drastica riduzione della capacità di comprendere la realtà come conseguenza della deriva informativa, che non si configura più ormai come processo di rappresentazione quanto piuttosto di produzione della realtà. In altre parole, si sceglie di approfondire una notizia partendo dai propri bias, e quindi, osserva Pira, “andiamo sostanzialmente a cercare in rete notizie che confermino i nostri pregiudizi”.
Per sintetizzare questa dinamica, il professore ha realizzato uno schema a esagono con sei elementi sulla base dei quali le fake news diventano verosimili; una notizia inventata, per essere credibile, deve avere: appeal, viralità, velocità, flussi, crossmedialità, forza. “È stato stimato – osserva Pira – che solo nella prima settimana dell’invasione di Gaza da parte di Israele siano state diffuse nel mondo circa 500mila fake news, tra post e notizie false”. Questo ci fa capire che c’è un problema sociale molto forte. Che coinvolge direttamente gli umori popolari e può influenzare di conseguenza le scelte di un mondo politico che sempre più spesso (più che alla testa) parla alla pancia degli elettori. Il professore cita come esempio quello delle ultime elezioni di mid-term americane “che sono state inquinate da deepfake facendo affermare ai candidati cose che non pensavano. Questo va a determinare tutta una serie di dinamiche che da un lato possono sovvertire il giudizio dell’elettore e dall’altro possono aumentare il senso di disaffezione verso la politica”.


L’ultima edizione del World Risk Report mette le fake news al primo posto nella classifica delle minacce globali


Un popolo di boccaloni

I risultati di uno studio realizzato pochi anni fa (Infosfera Report 2018, università Suor Orsola Benincasa) fotografano un Paese di boccaloni. È emerso che il 65,4% degli italiani non saprebbe distinguere una notizia falsa da una autentica, il 78,7% non è in grado di identificare un sito di fake news e l’82,8% non riesce a riconoscere la pagina Facebook di un sito di bufale. E proprio i social media, fa notare Pira, hanno un ruolo decisivo nella propagazione del fenomeno: “la proliferazione delle cascate informative – dice – facilita i meccanismi di rilancio delle fake news, che così permangono negli ambienti digitali”. Quanto all’identikit dello spacciatore di notizie false, il professore cita una ricerca statunitense secondo la quale “i più accaniti diffusori di fake news sono gli ultra 65enni con qualsiasi scolarità, quindi è un comportamento indipendente dal livello culturale”. Le trovano e le diffondono soprattutto sui social network, oppure all’interno di gruppi Telegram o WhatsApp.
Il ruolo dei social e la mercificazione sempre più spinta delle nostre informazioni personali offerte a queste piattaforme è un punto su cui Pira insiste: “oggi la cosa più importante che abbiamo sono i nostri dati. Perché chi li possiede ha un vantaggio notevole, in quanto sa anche dove fare breccia per offrirci informazioni calibrate sui nostri bias”. È quello che una grande studiosa, Shoshana Zuboff, ha chiamato il capitalismo della sorveglianza, “cioè l’idea che le tecnologie portino a una tipizzazione dell’individuo, il quale diventa sempre più prodotto e sempre meno essere umano, in una sorta di spettacolo costante in cui noi rischiamo di perdere l’identità. E questo – evidenzia Pira – diventa sempre più irreversibile in base al fatto che noi siamo sempre costantemente sorvegliati”.


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Dove trovare gli anticorpi

In questo contesto un po’ desolante viene spontaneo invocare la possibilità di un argine. Secondo Pira, gli anticorpi per contrastare le fake news si chiamano formazione e conoscenza. A partire da quella in capo ai professionisti dell’informazione. “Oggi – afferma – nell’orizzonte di lavoro di un giornalista non può esserci soltanto la capacità di saper trovare una notizia, ma anche quella di schivare una fake news e saper fare debunking”.
Ma non solo. Conoscenza e informazione, rimarca il professore, devono anche accompagnare lo sviluppo delle tecnologie. “Oggi ad esempio si parla molto di intelligenza artificiale e di metaverso senza rendersi sempre conto di cosa siano e di dove si stia andando. Ma non si può ridurre tutto a una moda passeggera, perché l’utilizzo improprio delle nuove tecnologie può comportare impatti sociali significativi”. La speranza in cui confida Pira è quella di “un nuovo umanesimo”, capace di “restituire all’essere umano il proprio valore attraverso l’educazione al rispetto dell’altro e alla responsabilità”.