La carica del secondo pilastro
Nonostante la vulgata comune, l’Italia spende (e spende parecchio) per il welfare: ben 447,4 miliardi di euro, suddivisi fra pensioni, sanità, assistenza sociale e politiche del lavoro. Numeri che crescono ulteriormente se si considerano le spese dedicate a esclusione sociale, famiglie e housing, oltre naturalmente ai costi legati al funzionamento della macchina del welfare state: in questo caso, il dato schizza a una cifra che rappresenta il 29,9% del Pil. Numeri elevati, superiori alla media europea (28,7%) e inferiori soltanto ai volumi registrati in Danimarca, Francia e Finlandia.
Eppure, nonostante tutto l’impegno profuso, i risultati non si vedono: negli ultimi anni il pilastro pubblico è apparso addirittura in deciso arretramento, incapace di mantenere le promesse fatte ai cittadini di termini di assistenza e cura della persona. Colpa soprattutto di un’allocazione sbilanciata delle risorse: troppo a pensioni e sanità, troppo poco a famiglia, inclusione sociale e formazione. Il risultato è una crescita di bisogni che lo Stato non sembra più in grado di soddisfare. Ed è qui che si inserisce il cosiddetto secondo welfare, universo multiforme di imprese diverse che fanno delle lacune statali il proprio business.
Stando al Terzo rapporto sul secondo welfare in Italia, pubblicazione periodica realizzata da Percorsi di secondo welfare, il settore appare in decisa crescita. Appare e, almeno per il momento, non di più, perché “mancano fonti e dati aggregati, ma anche perché la continua evoluzione di proposte, idee e sperimentazioni rende difficile stare al passo con i diversi filoni in via di sviluppo”, ha commentato Maurizio Ferrera, curatore del rapporto. Posto che le cifre non sono comunque certe, lo sviluppo del settore appare innegabile: si parla di diversi punti di Pil, sicuramente più del 5%. E cresce pure la platea dei beneficiari, a cominciare dalle 200 mila imprese che, a seguito della revisione dell’ultimo Ccnl dei metalmeccanici, hanno già adottato (ho potrebbero adottare nel prossimo futuro) piani di welfare aziendale. Secondo Ferrera, visti i volumi del mercato, “è necessario smettere di pregiudicare il secondo welfare come programmaticamente erosivo rispetto al primo, e bisogna rimanere aperti rispetto al contributo positivo che esso può dare alle chance di vita dei cittadini in questa nuova fase storica di ri-sperimentazione del welfare e dei suoi modelli”.