Pil e commercio globale: due riprese deboli
Dopo il 2016, anno in cui il Pil globale ha registrato il tasso di crescita più basso dal 2009, il 2017 dovrebbe chiudersi con un netto incremento dei volumi che dovrebbe consolidarsi anche nel prossimo anno. Sono le previsioni del Fondo monetario internazionale, che vedono un aumento della ricchezza pari al 3,5% per l’anno in corso e al 3,6% per il 2018.
La ripresa dell’economia resta fragile ma, certamente, sottolinea l’Istituto per il commercio estero sulla base dei dati dell’Fmi, gli eventi di fine 2016, cioè la domanda mondiale più sostenuta del previsto, il rialzo dei prezzi delle commodity e i mercati finanziari più dinamici, hanno favorito una reazione positiva.
Tra i principali rischi per il consolidamento della ripresa ci sono fattori di natura strutturale, come i bassi tassi di crescita della produttività e un forte aumento delle diseguaglianze dei redditi, e altri legati al ritorno di politiche protezionistiche.
Per l’Europa, e l’Italia in particolare, la fine del Quantitative easing, prevista per settembre 2018, potrebbe essere un fattore di forte fibrillazione. C’è comunque un generale accordo tra i principali analisti finanziari nel credere che la Bce protrarrà il Qe fino a fine 2018 per rilanciare un lieve rialzo dei tassi solo nel 2019. L’Eurotower prevede un calo dell’indice dei prezzi al consumo nella zona euro all’1,2% nel 2018 e una risalita all’1,5% l’anno successivo. L’inflazione, del resto, è ancora un malato da tenere d’occhio, nonostante i buoni segnali d’inizio 2017.
D’altra parte, sono i Paesi emergenti a lanciare lo sviluppo. Nel 2016 sono cresciuti mediamente del 4,1% e nel 2017 cresceranno del 4,5% e del 4,8% nel 2018, a fronte di uno sviluppo costante delle economie consolidate del 2% (2017 e 2018). La forbice tra il contributo alla crescita del Pil mondiale tra economie emergenti e sviluppate è destinata quindi ad aumentare almeno nei prossimi due anni.
Tuttavia, i tassi di crescita della Cina stanno rallentando rispetto agli anni precedenti (6,7% nel 2016; 6,6% nel 2017 e 6,2% nel 2018): si tratta di una fase di transizione dell’economia cinese (quanto lunga?) associata a una riduzione degli investimenti pubblici e a una spinta ai consumi interni.
Finisce la “globalizzazione buona”
In tutto questo, secondo le stime dell’Fmi, il commercio internazionale di beni e servizi, cresciuto appena del 2,2% nel 2016, è previsto in netta ripresa e nel 2018 arriverà al 3,8%.
Si tratta comunque di percentuali ben al di sotto della media degli anni precedenti. Il fenomeno del rallentamento della crescita degli scambi rispetto al Pil, dicono dall’Ice, caratterizza l’attuale ciclo economico: nella prima metà degli anni duemila gli scambi erano cresciuti mediamente del 6,4%, rispetto alla media del 7,1% degli anni novanta; mentre dopo la recessione del 2007-2008, e il rimbalzo del periodo 2008-2011, la crescita del commercio mondiale si è assestata su un tasso di sviluppo medio di poco superiore al 3% dal 2012 ad oggi.
Le spiegazioni sono di due tipi: una congiunturale e una strutturale. In primis, c’è un mutamento della composizione della domanda globale e una diminuzione degli investimenti, sia nei Paesi avanzati sia in quelli emergenti. In particolare, la crisi ha colpito più duramente i Paesi europei, portandoli a essere sempre meno aperti, ha acuito le difficoltà di alcuni strati di popolazione, aprendo la strada a politiche di stampo quasi nazionalista.
Dal punto di vista strutturale, invece, secondo gli analisti, la fase espansiva della globalizzazione, cominciata alla fine degli anni ottanta, è finita: c’è un minore ricorso alla delocalizzazione, con un rallentamento del commercio di beni intermedi e semilavorati.