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Clima, prevenire ma anche adattarsi

I modelli climatici ci mostrano scenari complessi, difficili da prevedere con sicurezza. Dalla delocalizzazione della produzione industriale alle politiche nazionali di tutela dell'ambiente: tutto concorre all'innalzamento delle temperature

Più delocalizzazione vuol dire più riscaldamento globale. Uno degli effetti collaterali della globalizzazione è anche questo: produrre alcuni parti di un’auto in Moldavia e assemblate in Serbia, la carrozzeria verniciata in Grecia e il tutto assemblato in Polonia, spinge il pendolo del riscaldamento globale verso le previsioni peggiori. In un recente intervento a un convegno a Milano, Antonio Navarra, presidente del Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici, ha parlato del principale rischio della nostra epoca. Il messaggio è chiaro: abbiamo un problema serio e dobbiamo affrontarlo in maniera seria, perché l’analisi del clima è complessa e si basa su modelli che non possono tuttavia avere una sperimentazione pratica. 

La complessità delle previsioni sul clima è profonda: ogni generazione sviluppa propri modelli che si basano sui risultati ottenuti dai modelli procedenti. Le previsioni sull’aumento della temperatura complessiva dell’ecosistema terrestre dipenderanno dalle emissioni di gas serra: le varie previsioni, dalle più ottimistiche alle più pessimistiche, esprimono comunque una media che non riflette quindi le condizioni estreme in determinate parti del mondo. Ciò che è certo è che gli eventi estremi, per esempio nel mediterraneo, sono e saranno sempre più frequenti. 

Il mediterraneo è una zona di confine anche meteorologico: d’estate, l’area ha il clima del nordafrica mentre in inverno permane una condizione europea-atlantica. Parafrasando l'adagio popolare secondo cui non ci sono più le mezze stagioni, in realtà, fa notare Navarra, non ci sono mai state. Il riscaldamento globale nel mediterraneo prolunga la stagione estiva di un paio di mesi perché i confini climatici si stanno spostando verso nord sulla linea delle perturbazioni. Gli eventi estremi accorciano i tempi di ritorno: ciò che prima accadeva ogni 10 anni, oggi accade ogni quattro; le estati torride, modello 2003, saranno la norma tra il 2070 e il 2100. 

Cosa fare? La ricetta non è semplice ma è chiaro che smettere di rilasciare CO2 nell’aria è la via maestra. Poi, per gestire gli effetti negativi già presenti, secondo lo scienziato, occorre incentivare i piani nazionali di adattamento al nuovo clima: le due azioni devono andare in parallelo, avendo presente che gli effetti delle mitigazioni si vedranno tra 20 anni. 

Infine, di fronte a nuovi problemi occorre abbattere la struttura ottocentesca della nostra formazione al lavoro, fatta di discipline separate che spesso non comunicano. Servono professionisti nuovi, transdisciplinari, che sappiano affrontare le minacce incrociate di un futuro incerto.